Obesità: andare oltre il BMI

Basarsi solo sul BMI per valutare la presenza o meno di obesità in un soggetto può essere fuorviante e spesso risultare erroneo. Ulteriori accertamenti diagnostici e misurazioni basate su altri dati possono contribuire a dare una risposta chiara e univoca.

L’obesità è una condizione clinica caratterizzata da un eccesso di peso corporeo per un eccessivo accumulo di massa grassa, in grado di indurre un aumento significativo dei rischi per la salute.

Fattori genetici e ambientali sono implicati nella patogenesi di tale disturbo. In particolare, nella maggior parte dei casi l’obesità è causata da stili di vita scorretti, come un’alimentazione ipercalorica e un ridotto dispendio energetico a causa di inattività fisica.

L’obesità si associa ad un aumento della morbilità per ipertensione, dislipidemia, coronaropatia, diabete mellito tipo 2, ictus, apnea notturna e cancro in varie sedi (mammella, endometrio, colon e prostata).

La principale complicanza è rappresentata dall’eccesso di morbilità cardiovascolare, soprattutto quando l’obesità si associa a ipertensione, diabete e dislipidemia come nella sindrome metabolica.

L’Indice di Massa Corporea (IMC o BMI – Body Mass Index) è il metodo più ampiamente utilizzato per classificare l’obesità, ed è il valore numerico che si ottiene dividendo il peso corporeo (espresso in Kg) per il quadrato dell’altezza (espressa in metri). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce sovrappeso la condizione nella quale l’IMC è uguale o superiore a 25 fino a 29.99, ed obesità quando l’IMC è uguale o superiore a 30.

Nello specifico si distinguono tre gradi di obesità:

  • obesità di I° grado (IMC 30-34.99)
  • obesità di II° grado (IMC 35-39.99)
  • obesità di III° grado (IMC ≥ 40)

Per la sua semplicità e rapidità d’uso, il BMI è un valido indice di rischio di morbilità e mortalità per osservazioni di popolazione ma, nonostante esso sia lo strumento più comunemente utilizzato per valutare l’obesità, a livello individuale non può essere considerato un valido indicatore della quantità di tessuto adiposo principalmente perché il suo numeratore (peso corporeo in Kg) non esprime solo la massa grassa dell’individuo ma anche la massa magra, comprensiva di massa muscolare, massa cellulare, acqua corporea e massa ossea.

Per questo motivo, nel tempo sono stati fatti vari tentativi per superare la definizione di obesità basata solo sul BMI.

Alcuni autori hanno proposto di classificare l’obesità in base alla percentuale di massa grassa del soggetto: tra questi, Deurenberg definisce obesità una condizione in cui la massa grassa sia ≥ 35% nelle donne e ≥ 25% negli uomini (Deurenberg P et al, 1988), mentre Heo considera come cut-off 39.9 % nelle donne e 27.5% negli uomini (Heo M et al, 2012).

Nella pratica clinica infatti, possiamo incontrare pazienti normopeso ma con massa grassa elevata e con due o più anomalie metaboliche (alterato metabolismo glucidico, dislipidemia, ipertensione…) che determinano un rischio cardiovascolare pari ai soggetti con BMI > 30.

Nell’ottica di rivedere la definizione di obesità, Aung et al nel 2014, confermando quanto detto in precedenza da Deurenberg e Heo, hanno definito tali soggetti “soggetti normopeso ma metabolicamente obesi”, aprendo le porte ad un’ulteriore definizione di obesità basata sul BMI del soggetto associato o meno alla presenza di morbilità obesità-correlate.

Chang Y et al infatti, nel 2014 hanno definito “obesità benigna” la condizione in cui il BMI > 30 non è associato ad alcun componente della sindrome metabolica (“pazienti obesi metabolicamente sani”); tale condizione è però transitoria e alla lunga aumenta lo stesso il rischio cardiovascolare (Kramer C et al, 2013).

Raramente, vi sono invece condizioni in cui l’essere obesi è protettivo e aumenta la sopravvivenza, come ad esempio in caso di diabete, ipertensione, ictus e paziente chirurgico: Luis Gruberg et al nel 2002 per la prima volta definirono tale situazione “paradosso obesità”.
In questo contesto la classificazione di Edmonton è un primo tentativo per passare oltre alla definizione classica basata solo sul BMI, ma sono necessari ulteriori studi clinici per validare tale scala. Edmonton nella sua scala classifica i pazienti obesi (BMI ≥ 30) in base alla condizione clinica.

Proposed Edmonton Obesity Staging System (EOSS), per pazienti con BMI ≥ 30

Stadio 0: il paziente non presenta fattori di rischio legati all’obesità (ad es. ipertensione, dislipidemia, alterato metabolismo glucidico…), non ha sintomi fisici, non ha limitazioni funzionali e/o una riduzione della qualità di vita.
Stadio 1: il paziente ha subcliniche morbilità obesità-correlate (ad es. ipertensione borderline, alterati enzimi di funzionalità epatica, ridotta tolleranza ai carboidrati…), lievi sintomi fisici (ad es. dispnea dopo esercizio fisico moderato, fatica…), lievi limitazioni funzionali o lieve riduzione della qualità di vita.
Stadio 2: il paziente ha patologie croniche legate all’obesità (ad es. ipertensione, diabete mellito tipo 2, apnee notturne, osteoartrite…), moderate limitazioni nelle attività quotidiane o una moderata riduzione della qualità di vita.
Stadio 3: il paziente ha danni d’organo come infarto del miocardio, scompenso cardiaco, complicanze diabetiche, osteoartrite invalidante, moderate psicopatologie e significativa limitazione funzionale e della qualità di vita.
Stadio 4: il paziente ha severe disabilità, potenzialmente terminali, dovute a patologie croniche legate all’obesità, severe psicopatologie e severe limitazioni e/o una severa riduzione della qualità di vita.

Visti i numerosi fenotipi con i quali l’obesità si può manifestare, possiamo concludere affermando che nonostante il BMI sia il più comune metodo utilizzato per classificare l’obesità, esso è limitativo e l’obesità classificata solo sulla base del BMI non può essere definita una patologia in sé senza prima aver effettuato ulteriori accertamenti clinici volti a valutare lo stato metabolico del paziente.


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    Emozioni, stress e cibo

    Le emozioni, lo stress e il cibo fanno parte integrante della vita di tutti i giorni ma per alcune persone diventano dei valichi da attenuare, superare e poi sconfiggere. 

    Sembra quasi una lotta che dura da tempo e dalla quale non si riesce a trovare una via d’uscita.

    Trovare l’equilibrio significa investire del tempo verso se stessi, fermarsi a riflettere, chiedere aiuto per trovare risposte diverse da quelle abituali e dalle quali si è bloccati.
    Lo stretto rapporto tra emozione e cibo fa riferimento allo stato d’animo nel quale ci si trova e dal quale si cerca di uscire vedendo come unica strategia il cibo.

    Visioni semplicistiche, visioni individuali e pensate come assolutamente inspiegabili e immodificabili.

    Ci sono dei meccanismi che mantengono dei pensieri distorti relativi al cibo e a sè stessi, delle preoccupazioni per le forme e il peso corporeo, dei comportamenti incontrollabili, ma tutto ciò può avere una spiegazione.

    Si parla tanto di autostima, di controllo degli impulsi, di consapevolezza, ma prendere atto di questo e poi riuscire a lavorare e porsi degli obiettivi raggiungibili verso se stessi è un impegno.

    E chi ha voglia di impegnarsi in un mondo frenetico come il nostro?

    Bisogna prima di tutto darsi fiducia, lasciarsi aiutare e soprattutto saper chiedere aiuto. 

La chiave sta dentro ogni persona, proprio quella persona che deve riuscire a trovare l’equilibrio alimentare, l’equilibrio comunicativo e quello emotivo.

    Dare una possibilità a se stessi di potersi modificare e migliorare costituisce  già il primo e fondamentale passo.


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      Cibo e cuore: limitare il rischio cardiovascolare

      Per proteggere il cuore: quale dieta? Il miglioramento dello stile di vita, specie se mantenuto nel tempo, può ridurre le probabilità di insorgenza di patologie cardiovascolare. Abolizione del fumo, limitazione degli alcoolici e una dieta sana possono contribuire a mantenere un benessere generale e a proteggere l’organismo.

      Per proteggere il cuore: quale dieta?

      La strategia per salvaguardare il cuore trova riscontro in una dieta mediterranea e variegata da seguire giorno dopo giorno: bilanciata e rispettosa del corretto apporto calorico; ricca in vegetali, alimenti integrali e pesce; integrata con le giuste quote di acidi grassi essenziali; povera in grassi saturi, zuccheri semplici e sale.

      Quali sono dunque i cibi che danno forza alla dieta mediterranea e difendono il cuore?

      Frutta e verdura di stagione

      Le ultime ricerche scientifiche in campo di prevenzione raccomandano il consumo di sette porzioni al giorno fra verdura e frutta, rigorosamente di stagione. La stagionalità permette infatti di consumare vegetali non conservati in celle frigorifere o per mezzo di prodotti chimici, tecniche che abbassano notevolmente l’apporto di importanti molecole funzionali come gli antiossidanti.
      Alcuni vegetali denominati “super cibi” amici della salute sono:

      • POMODORI: fonte di licopene, prezioso antiossidante; è consigliata l’assunzione di 10 porzioni di pomodoro a settimana, preferibilmente cotto (ha un contenuto 5 volte superiore di licopene).
      • BRASSICACEE: (broccoli, cavoli, verza etc.) per la prevenzione delle malattie cardiovascolari e dei tumori grazie ai composti fenolici, vitamina C e folati.
      • AGLIO, CIPOLLA, PORRO: apportano prodotti solforati coinvolti nella prevenzione del tumore del colon e delle malattie cardiovascolari.
      • SPEZIE e ERBE AROMATICHE (curcuma, zenzero, zafferano, prezzemolo, rosmarino, basilico, salvia, etc) ricchi di antiossidanti permettono di insaporire gli alimenti riducendo l’apporto di oli e sale.

      

Cereali naturali e integrali

      Nello scegliere la tipologia di cereali, è bene preferire quelli “naturali”, risultanti dal minor numero possibile di lavorazioni industriali. Durante la raffinazione della farina, si asportano infatti il germe e la parte esterna del chicco (crusca), perdendo così un’importante quota di fibra e nutrienti. Il risultato è quello di avere alimenti come pasta, pane, riso (e derivati) ad elevato indice glicemico e basso indice saziante, che dunque non sono in grado di mantenere la sazietà nel lungo termine. La fibra contenuta negli alimenti integrali inoltre, permette di modulare e ridurre l’assorbimento degli zuccheri semplici e dei grassi presenti negli alimenti. 
E’ dunque consigliato scegliere pasta, pane integrali e cereali a chicco come riso integrale, riso nero, riso rosso, farro, orzo, grano saraceno, etc.

      Legumi

      Importante rivalutare i legumi (piselli, fagioli, ceci, lenticchie, fave, soia, etc) nell’alimentazione quotidiana. Questi vegetali infatti apportano fibre, proteine di buona qualità e la lecitina, un fosfolipide in grado di ridurre il livello di colesterolo nel sangue. La soia contiene isoflavoni, che svolgono un’azione antitumorale e di protezione nei confronti della densità ossea (prevenzione dell’osteoporosi) soprattutto per la donna nel post menopausa.

      Olio extravergine d’oliva

      E’ un olio di prima spremitura, a bassa acidità, ottenuto con soli metodi meccanici (senza manipolazioni chimiche) e “a freddo” (a temperature inferiori a 27 C°, che ne consentono il mantenimento delle caratteristiche organolettiche e delle qualità nutrizionali). L’olio extravergine d’oliva è un importante alleato della salute cardiovascolare grazie al significativo contenuto di benefici grassi monoinsaturi, tra cui l’acido oleico, che favoriscono il controllo del colesterolo “cattivo” (LDL) e l’ottimizzazione del colesterolo “buono” (HDL). Inoltre esercita un’importante azione antinvecchiamento grazie al ricco contenuto di polifenoli e vitamina E che, insieme ai carotenoidi (soprattutto betacarotene), contrastano radicali liberi, stress ossidativo e stimoli infiammatori. E’ infine un vero e proprio cibo-medicina che ha importanti proprietà anti-tumorali, contribuisce a regolare la funzionalità gastrica, promuove il benessere del fegato e aiuta a combattere la stitichezza.

      Frutta secca e semi oleosi

      Studi scientifici recenti sottolineano le importanti proprietà di frutta secca e semi oleosi (in particolare noci e semi di lino) nella salvaguardia delle arterie e del cuore (prevenzione malattie cardiovascolari) grazie all’apporto di importanti acidi grassi essenziali (in particolare omega-6)  che come l’olio extravergine d’oliva, concorrono ad abbassare il colesterolo cattivo ed aumentare quello buono.Tra le vitamine (in particolare del gruppo B e vitamina E) e i sali minerali (selenio, potassio, zinco, magnesio, manganese e rame) contenuti nella frutta secca, ci sono molte sostanze antiossidanti capaci di combattere i radicali liberi.

      Pesce

      Il pesce è l’alimento di origine animale che bisognerebbe consumare con maggior frequenza settimanale (almeno 2/3 volte a settimana): apporta infatti proteine di ottima qualità, ferro facilmente assorbibile dall’organismo, fosforo e acidi grassi essenziali omega 3 (in particolare pesce azzurro e salmone) che come detto sopra, favoriscono la produzione di colesterolo buono.

      

Vino rosso

      Un consumo moderato di vino rosso all’interno del pasto può avere un effetto protettivo sull’arteriosclerosi e sulla malattia coronarica: l’alcol favorisce infatti la sintesi di HDL e di prostacicline (impediscono l’aggregazione piastrinica); i tannini, i flavonoli e gli antociani inibiscono l’ossidazione delle LDL (che ossidate sono fortemente aterogene); i procianidoli (resveratrolo) hanno la maggiore attività antiaterogena e ipocolesterolemizzante. Il vino rosso può dunque avere un’azione protettiva nei confronti dell’apparato cardiocircolatorio se assunto con moderazione (consumo di circa 1 bicchiere-1 bicchiere e mezzo al giorno = 100-125 ml circa).


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        Leptina e obesità

        Nel soggetto obeso sono stati riscontrati quantitativi molto elevati di leptina circolante, ben più alti di quelli osservati nell’individuo normopeso.

        I meccanismi fisiopatologici che portano all’accumulo e al mantenimento del tessuto adiposo nell’obeso, sono attualmente poco chiari. Risulta pertanto particolarmente interessante la scoperta nel 1994 di un ormone, la leptina, prodotto dal tessuto adiposo e in grado di regolare la massa corporea.

        La leptina arriva nel Sistema Nervoso Centrale (SNC) attraverso la barriera ematoencefalica mediante un meccanismo di trasporto mediato da specifici recettori. Questo segnale di natura ormonale ha lo scopo di informare il SNC sullo stato di riserve energetiche dell’individuo. Agisce regolando l’apporto alimentare attraverso l’inibizione della sintesi e del rilascio del neuropeptide Y (NPY), sostanza stimolante l’appetito.

        Nel soggetto obeso sono stati riscontrati quantitativi molto elevati di leptina circolante, ben più alti di quelli osservati nell’individuo normopeso. Tale quantitativo è risultato inoltre strettamente correlato con il BMI e la quantità di massa grassa. Tale condizione porta a supporre che nell’uomo l’obesità sia legata ad un’azione di resistenza all’azione della leptina a livello dei suoi centri ipotalamici piuttosto che a un suo deficit secretorio.

        È stato tuttavia riscontrato un 5-10% di soggetti obesi con livelli di leptina molto bassi rispetto alla massa adiposa. Se da un lato quindi la leptina rappresenta un ormone strettamente correlato alla quantità di massa adiposa e al peso individuale, dall’altro le relazioni esistenti tra le fluttuazioni ponderali e le variazioni dell’ormone non risultano sempre lineari.

        Il digiuno, ad esempio, indipendentemente dalle variazioni di peso, induce un rapido calo dei livelli di leptina circolanti rappresentando perciò un segnale precoce di deficit energetico per il SNC.

        Potrebbe essere questo un responsabile della riduzione della spesa energetica normalmente associata ad un calo ponderale da drastica restrizione dietetica.

        Inoltre un’interessante e recente lavoro di Bado et al. del 1998 ha riportato l’ipotesi di una secrezione di leptina da parte delle cellule parietali del fondo gastrico forse in risposta al pasto. 
La leptina potrebbe quindi essere uno dei fattori endocrini coinvolti nella genesi della sazietà post-prandiale. In realtà, poiché non sembra che l’assunzione di cibo modifichi in maniera sensibile le concentrazioni circolanti di leptina, è verosimile che la secrezione gastrointestinale di quest’ormone indotta dal pasto, non sia legata alla modulazione della sazietà.


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          La motivazione al cambiamento

          La domanda di cura che ci porta il paziente viene accolta senza pregiudizi o orientamenti diagnostici forzati. Non si ha la pretesa di una diagnosi né tantomeno di una terapia da proporre già dal primo incontro; la conoscenza continua dopo la prima visita protrae il tempo necessario per valutare motivazione, consapevolezza, resistenze e obiettivi.

          La possibilità di cambiare e la motivazione a farlo dipendono da numerosi fattori, che un buon trattamento dovrebbe prendere in considerazione. Tralasciando elementi di ordine individuale e prettamente medico-educativi già precedentemente trattati, la terapia deve aiutare la persona a lavorare su:

          – la presa di consapevolezza di un proprio stato di disagio, riconoscibile e curabile;

          – la possibilità di riceverne un sostegno e un trattamento da specialisti idonei;

          – l’acquisizione di fiducia nelle proprie possibilità e abilità per modificare la situazione in cui si trova;

          – il cambiamento della percezione e dell’immagine che il soggetto ha di sè, rispetto alle categorie dell’insoddisfazione, della disistima, dell’irrealisticità con cui viene visto o percepito il proprio corpo o qualche sua parte;

          Il processo di cambiamento può essere distinto in alcune fasi (modello di Prochaska e Di Clemente):

           1. Pre-contemplazione: il problema non esiste, non si pensa di dover modificare alcun comportamento

           2. Contemplazione: si ha consapevolezza del problema ma senza una visione chiara della necessità di cambiare

           3. Determinazione: l’intenzione di cambiare esiste ma ha bisogno di essere rafforzata e ben organizzata

           4. Azione: per modificare il comportamento disfunzionale sono necessarie strategie di intervento applicabili e utilizzabili, da costruire insieme ad un supporter

           5. Mantenimento: le strategie suddette vanno fatte proprie e consolidate, onde prevenire eventuali ricadute

           6. Ricaduta: è un evento prevedibile e come tale fa parte dei singoli passaggi da tenere presente quando è in atto un processo di cambiamento.


          La metodica di trattamento utilizzata nel nostro ambulatorio, basata su colloqui iniziali di motivazione, corretta informazione medica sul problema presentato e sul poter esperire l’effetto dei propri comportamenti attraverso dei dati di laboratorio, consente di passare rapidamente alla fase dell’azione, con risultati evidenti. La personalizzazione della cura, unitamente al costante rapporto con i terapeuti, facilita l’elaborazione degli ultimi due stadi e l’interiorizzazione nel paziente, stimolando la sua autonomia ed autoefficacia.

          E’ fondamentale comprendere cosa ha spinto la persona a chiedere aiuto, individuare qual è la “congiuntura” che ha portato a decidere di cambiare. Per congiuntura si intende la circostanza che ha favorito la decisione di mettere in atto la domanda. In alcuni casi può essere un evento, un cambiamento di contesto, una situazione negativa, un indicazione data dall’esterno da parte di una persona di rilievo (da parte di un familiare), una prescrizione (da parte di uno specialista).

          In questo caso è fondamentale cogliere se le richiesta giunge dalla persona, se quindi la motivazione è interna.

          La prima fase del percorso di educazione alimentare chiamata “Fase 0” prevede attraverso l’utilizzo di schede da compilare che la persona rifletta sulla motivazione ad affrontare il percorso di cura, sugli ostacoli e le resistenze che incontra, sui vantaggi e svantaggi che un cambiamento potrebbe comportare, ma nello stesso tempo vanno analizzati anche i vantaggi e svantaggi della condizione attuale.

          Il terapeuta, attraverso i colloqui, valuta il livello di disponibilità in cui si trova la persona, le sue priorità e i suoi tempi e adatta l’intervento.

          Inoltre viene svolta una valutazione dell’importanza del cambiamento per la salute e il benessere del paziente.

          Infine la corretta informazione scientifica sulla patologia o sul disagio presentato è una doverosa e utile conoscenza oggettiva, che dice da sé quanto è importante cambiare un comportamento disfunzionale per poter stare bene e tutelare la propria salute.


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            Diverticolite, diverticolosi: lo stile di vita

            In caso di diverticoli asintomatici si raccomanda l’adozione di una dieta ad alto residuo cioè ricca di fibre accompagnata da consigli igienico-alimentari volti a modificare la coesistenza di stipsi, e prevenire lo stato infiammatorio.

            Alcuni consigli possono essere così riassunti :

            • Evitare la vita sedentaria
            • Fare la prima colazione
            • Consumare pasti regolari, non saltarli per nessun motivo
            • Abituarsi a regolarizzare l’evacuazione a orari fissi (non rimandare!)
            • Masticare bene e a lungo
            • Bere molto, almeno 1,5-2 litri di liquidi nella giornata, anche fuori pasto (acqua, tè, tisane, orzo, spremute, centrifugati di frutta e verdura)
            • Moderare il consumo di carne ed insaccati
            • Assumere yogurt con probiotici, se tollerato
            • Consumare cereali integrali (pane ben cotto o raffermo, pasta, orzo, riso, biscotti, grissini, fette biscottate, fiocchi d’avena, orzo, fiocchi di cereali)
            • Consumare, aumentando gradualmente le quantità, verdura (carote, pomodori pelati e senza semi, lattuga, scarola, sedano, fondi di carciofo, finocchi, spinaci, catalogna, punte di asparagi) e frutta (privilegiando mele, pere, arance, albicocche)
            • Consumare, valutandone la tollerabilità, cavolo, cavolfiore, broccoli, cavoletti di Bruxelles, legumi( decorticati), prugne secche e fresche, uva (eliminando i semi)
            • Si consiglia di asportare i semi e di evitare le varietà di frutta e verdura per le quali non è possibile allontanare le parti di fibra compatta: fichi, fragole, lamponi, ribes, more, kiwi, melograno, fagiolini, semi di girasole, nocciole e mandorle. In tal modo si vuole evitare che i semi o parti non ben frantumate con la masticazione rimangano intrappolate nei diverticoli infiammandoli

            Durante le fasi di infiammazione acuta (diverticolite) al contrario si consiglia un’alimentazione povera di scorie con i suggerimenti che seguono.

            Assumere liberamente:

            • Pane bianco tostato, grissini, crackers, fette biscottate, biscotti secchi
            • Pasta, riso, semolino
            • Uova, carne, pesce, prosciutto cotto o crudo, bresaola, formaggi (preferibilmente parmigiano)
            • Patate e carote lessate
            • Lattuga
            • Frutta senza buccia
            • Spremute filtrate o succhi al naturale
            • Centrifugati di verdura e frutta
            • Latte e yogurt (se tollerati)
            • Cibi lessi, cotti al vapore, al forno, alla griglia
            • Acqua minerale naturale, caffè decaffeinato, tè deteinato,  orzo, tisane

            Evitare:

            • Prodotti integrali
            • Verdura non centrifugata
            • Legumi non decorticati
            • Cioccolato
            • Cibi piccanti e speziati (pepe, peperoncino, paprika, curry…)
            • Bevande gassate, alcolici, superalcolici
            • Formaggi piccanti (gorgonzola, pecorino, provolone)
            • Fritti
            • Piatti elaborati

            Federica Mercuri-dietista-


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              La malattia diverticolare del colon: cause

              La patologia diverticolare è  presente fino ad un terzo nella popolazione nei cinquantenni e fino a due terzi negli ultraottantenni con una prevalenza nel colon sinistro nelle popolazioni occidentali rispetto ai paesi in via di sviluppo, da questo si può  ritenere che i meccanismi eziopatologici siano correlati alle abitudini alimentari proprie di quelle aree.

              Cause

              Per diverticolo del colon si intende un’estroflessione sacciforme della tonaca mucosa e della tonaca sottomucosa, laddove le arterie perforanti attraversano lo strato muscolare circolare, per lo più tra la tenia mesenterica e le tenie laterali.

              Con il termine diverticolosi si indicano gli aspetti anatomici ovvero la presenza o meno di uno o più diverticoli asintomatici, mentre in presenza di sintomatologia si parla di malattia diverticolare del colon che può essere sintomatica complicata o non complicata.

              La patologia diverticolare è  presente fino ad un terzo nella popolazione nei cinquantenni e fino a due terzi negli ultraottantenni, senza differenze tra i due sessi, i diverticoli inoltre si localizzano al sigma e al colon discendente nel 90% dei casi interessando maggiormente la regione sigmoidea e risparmiando il retto.

              Il meccanismo patogenetico risale ad un prolungato aumento pressorio endoluminale  . Secondo la legge di  Laplace la pressione all’interno di un condotto è direttamente proporzionale alla tensione parietale ed inversamente proporzionale al raggio , quindi più è ampio il calibro del lume di un condotto e minore è la pressione endoluminale, perciò uno scarso contenuto intestinale accentua la pressione intraluminale, mentre un abbondante contenuto distendendo l’ansa ne amplia il calibro e riduce la pressione.

              Lo scarso contenuto di materiale intestinale è dovuto principalmente da un’alimentazione povera di fibra alimentare e ricca invece  di alimenti raffinati , proteine e grassi che contribuiscono a mantenere un’elevata pressione endoluminare elemento patogenetico della malattia diverticolare; la fibra al contrario aumenta la massa fecale velocizzando cosi’ il transito intestinale .

               

               

              Federica Mercuri-dietista-

              Fonte: Manuale di Gastroenterologia Unigastro edizione 2013-2015


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                Salute: da consapevolezza a scelta

                Per raggiungere un benessere personale fisico e psichico è importante anche poter disporre di informazioni e conoscenze corrette relative alla salute e a cosa è opportuno fare per mantenerla.

                Il personale medico specializzato, la letteratura sull’argomento, le esperienze di cura di persone che hanno già effettuato un percorso di salute, sono elementi utili per confrontarsi e parlare di un proprio stato o disagio.

                A volte non si sta bene ma di questo malessere, dell’insoddisfazione per sé e il proprio corpo, non si sa neppure se abbia un nome, si evita di guardarlo perché fa paura e si pensa che non ci sia rimedio, ci si nasconde perché crea sensi di vergogna e di colpa e si teme il giudizio del mondo esterno.

                È invece importante sapere che ci sono molte altre persone che possono essere nella nostra condizione e che ci sono specialisti e cure preposti a trattare adeguatamente i disturbi relativi al corpo e al comportamento alimentare. Fare da soli per cercare di risolvere un disturbo alimentare il più delle volte aggrava e cronicizza il disturbo stesso.

                Conoscersi per aiutarsi

                Conoscere, è il primo passo per conoscersi e affidarsi a chi può aiutarci; il primo passo utile da fare per la propria salute, per ordine e per importanza, è iniziare a cambiare il proprio modo di pensare.

                Non si tratta di fare un’altra dieta, di privarsi del cibo bensì si tratta di iniziare a riflettere, a prendere consapevolezza delle proprie abitudini, dei propri comportamenti nutrizionali e quotidiani, delle proprie idee e delle informazioni acquisite, spesso in modo erroneo a causa dell’assenza di una corretta educazione scientifica in merito.

                Solo dopo questo fondamentale passaggio di conoscenza e di mutamento all’interno di un nuovo sistema di pensieri e di parametri relativi alla salute è possibile compiere scelte efficaci, consapevoli e durature per il proprio benessere. E’ una dimensione complessa che ciascuno è libero di scegliere e costruire e non è assolutamente riducibile ad un numero di chili. Anche quando si pensa che il proprio unico problema sia il peso e ci si ostina a fare diete su diete da un numero dimenticato di anni, nulla potrà migliorare se prima non si cambia o non si chiede un aiuto professionale per poterlo fare.

                Il primo passo non è far scendere o salire l’ago della bilancia, perché questa sarà una naturale conseguenza se ci si inserisce in un percorso di modifica e miglioramento di stile di vita globale finalizzato al benessere.

                La diaita per tutti

                I tre elementi fondamentali del benessere su cui lavoriamo con i nostri pazienti (il cibo corretto, l’attività motoria costante, la cura di sé) sono dunque scelte di salute che tutti dovrebbero consapevolmente fare. La stessa diaita per tutti, al di là del proprio peso corporeo.

                Non è il peso che li differenzia ma la loro attitudine (polimorfismi genetici) che li porta a esprimersi in modi differenti. L’unica differenza, per esempio, tra persona normopeso e persona obesa, è che mentre la prima è per natura portata ad andare in questa direzione, la seconda va verso la direzione opposta, cioè verso la pigrizia, la sedentarietà, un minore interesse e attenzione a sé, una scorrettezza alimentare per quantità, qualità, ordine.

                La problematica sovrappeso/obesità, inquadrata secondo tali linee, viene perciò ad appartenere al contesto della normalità della salute e non più della diversità penalizzante e cronica: una stessa strada per tutti, in cui c’è chi sta andando nella direzione corretta e chi invece deve essere aiutato a invertire il senso di marcia.

                Paradossalmente, a partire dalla domanda di cura, per arrivare alla diagnosi e alla strategia terapeutica, per tutti abbiamo lo stesso traguardo: la diaita. Questa lettura può diventare funzionale e utile allo stare bene nella percezione di benessere del paziente, il quale – sgravato dal peso della colpa, dal senso di fallimento, giudizio e impotenza – viene innanzitutto informato ed educato, poi sostenuto e responsabilizzato nella costruzione di un percorso consapevole di salute e di crescita personale.

                L’obesità e disturbi del comportamento alimentare (DCA)

                Da una condizione penalizzante, colpevolizzante , senza molte speranze, si passa a una condizione modificabile in positivo, motivante, su cui si può lavorare insieme e con buona riuscita. L’aumento delle nuove forme dei disturbi del comportamento alimentare (spesso abbreviati in DCA) a fronte di un calo dei casi tipici di anoressia e bulimia nervosa a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, ci porta a fare queste considerazioni.

                L’obesità intesa fi no a qualche decennio fa come uno stato di benessere fisico ed economico si è “arricchita” di significati antiestetici, di malattia, scarsa forza di volontà; è diventata uno stigma sociale con tutti i relativi danni psicologici.

                Anoressia, bulimia, obesità da significati e posizioni diametralmente opposti confluiscono oggi in un corollario di sintomi che le accomuna. Oltre i rigidi confini delle etichette, della classificazione delle malattie, c’è un universo di sintomi, corollario di un disagio che, tra le sue manifestazioni, arruola corpi diversi per forma e dimensioni. Corpi diversi uniti da un intenso malessere e un forte grido di aiuto. Una richiesta di benessere che oltre il corpo e il cibo svela la sofferenza dell’anima. Solo un approccio globale, interdisciplinare e sinergico può dare delle risposte a chi vive da tanto tempo prigioniero di un corpo troppo magro o troppo ingombrante. Corpi uguali storie diverse… stesse storie, corpi differenti.

                Tratto dal libro “Corpi uguali, storie diverse” del dott. Luigi Oliva

                ALIMENTI METEORIZZANTI

                Pubblichiamo di seguito una lista degli alimenti meteorizzanti, contenenti gas o in grado di produrre notevoli quantitativi di gas intestinali attraverso il processo di fermentazione, che provoca tensione addominale, e temporanei fastidi intestinali.

                Pubblichiamo di seguito una lista degli alimenti meteorizzanti, contenenti gas o in grado di produrre notevoli quantitativi di gas intestinali attraverso il processo di fermentazione, che provoca tensione addominale, e temporanei fastidi intestinali.

                ALIMENTI METEORIZZANTI

                • Fagioli secchi, piselli secchi, fagioli cotti, soja, lenticchie, cavoli, ravanelli, cipolle, broccoli, cavolfiori, cetrioli, crauti;
                • Prugne, mele, uva passa, banane;
                • Cereali integrali, eccessive quantità di prodotti di grano o di frutta;
                • Cibi ad alto contenuto in lattosio: latte, gelati, frappè, creme;
                • Dolcificanti artificiali: sorbitolo e mannitolo che sono presenti in alcune caramelle dietetiche o chewing-gum senza zucchero;
                • Cibi ad alto contenuto in grasso come i fritti, carni grasse, salse ricche in panna, sughi, paste.

                La presenza di tensioni e gas intestinali, può essere causata inoltre da ingestioni involontarie di ingenti quantitativi di aria. Le cause principali sono di seguito descritte.

                CAUSE DI INGESTIONE DI ARIA

                • Deglutizioni frequenti e ripetitive che possono essere causate da dentature mal funzionanti, chewing-gum, tabacco, succhiare caramelle o sorseggiare bevande;
                • Mangiare e inghiottire velocemente cibi e bevande;
                • Succhiare con la cannuccia, bere da bottiglie a collo stretto, fumare sigari, sigarette e pipe;
                • Cibi che contengono aria come le bibite gasate e la panna montata

                ALTRI FATTORI CHE POSSONO INFLUENZARE LA PRODUZIONE O LA RITENZIONE DI GAS

                • Coricarsi dopo pranzo
                • Inattività fisica
                • Stress

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                  La cura: partire dall’esperienza sul proprio corpo

                  Il nucleo di base della terapia per il disagio alimentare-corporeo è proprio il corpo, inteso come primo mezzo e specchio di valutazione con cui sperimentare in pratica e da subito un comportamento nuovo.

                  Solitamente il paziente, riferendo la sua storia nutrizionale, racconta di avere già provato innumerevoli diete, di avere consultato tanti dietologi, di averci messo tutta la sua volontà, di essere stato consigliato in tanti modi per risolvere il suo problema, con il risultato o di aver perso e poi riacquistato tutto il peso oppure di non essere riuscito a seguire la dieta nel tempo.

                  Queste esperienze, molto comuni, di tentativi e fallimenti, di prove e assenza di benefici, sono caratterizzate da alcuni elementi ricorrenti che vanno a costituire un circolo vizioso e dannoso per la persona.

                  La prescrizione più classica e frequente di una dieta vede nella restrittività la conditio sine qua non, il fattore principale per poter dimagrire.

                  Il calcolo calorico effettuato attraverso parametri standard e non derivanti da esami medici personalizzati, non consente di valutare con precisione qual è l’effettivo rapporto dispendio/fabbisogno energetico del soggetto specifico.

                  Gli effetti della restrizione alimentare sono riscontrabili a due livelli di tempo: nel breve termine, se la persona riesce a seguire il piano alimentare, si assiste ad una perdita di peso; in un termine medio o più lungo, invece, per la maggioranza dei soggetti, risulta assolutamente troppo difficile o pressoché impossibile attenersi scrupolosamente ad una dieta ipocalorica.

                  La restrizione eccessiva inoltre, comporta biologicamente un tentativo di compensazione che si traduce in abbuffate o “fame nervosa” durante il percorso dietetico. È come se si chiedesse ad una persona di resistere sott’acqua il più possibile senza respirare: non appena riemerge, il corpo attiva immediatamente un meccanismo di compensazione che permette, attraverso l’accelerazione della respirazione, di introdurre quanto più ossigeno possibile per riequilibrarne la sottrazione.

                  Solitamente, la restrizione alimentare porta alla rottura della dieta o addirittura alla fame compulsiva in cui viene del tutto meno la capacità di controllo. Non bisogna dimenticare che il fattore tempo è rilevante nei disturbi alimentari, sia come elemento definente il disturbo stesso sia come prospettiva, in particolare nel caso dell’obesità, che – in quanto malattia cronica – richiede un metodo di gestione nel lungo periodo.

                  In tale dinamica restrittiva il paziente, prima o dopo, va incontro ad un fallimento che porta al recupero del peso perduto e alla percezione di sé come individuo privo di volontà e di capacità di riuscita. Per riprendere il paragone precedente, è come se si chiedesse alla persona di provare a resistere sott’acqua un’ora senza respirare per vincere un milione di euro: non importa a questo punto la quantità di forza di volontà o spinta motivazionale con cui il paziente si accinge a provare, che può essere anche molto forte, conta invece la non fattibilità e idoneità da un punto di vista prima di tutto fisiologico. Se il meccanismo tentativo-fallimento si ripete varie volte andrà a costituire uno schema comportamentale e un’idea fissa sulla propria identità e a formare un individuo alla fine demotivato e sfiduciato in se stesso e poi nelle diete.

                  La dieta dunque, differente per ognuno, dovrebbe avere due caratteristiche comuni fondanti:

                  • Insegnare ed educare alla scelta dei cibi corretti. La scelta del cibo “magro” versus “grasso” consente di poter mangiare in quantità molto maggiori a parità di calorie, di mantenere per un maggiore arco di tempo la sensazione di sazietà, di inviare a livello centrale corretti messaggi neurochimici sullo stato di fame.
                  • Fornire il giusto senso di sazietà. L’esperienza del sentirsi sazi non è fine a se stessa ma è importante in quanto porta con sé conseguenze fondamentali; prima di tutto permette di rapportarsi all’idea di “alimentazione normale”, cioè un quotidiano modo di nutrirsi che non fa sentire estranei e “strani” rispetto alla maggior parte degli individui perché costretti a mangiare pochissimo; dà equilibrio perché non pone in una costante situazione di carenza alimentare che toglie energia psicofisica e lucidità mentale; fa rapportare la persona all’idea di benessere e non all’idea di privazione che avrebbe un significato psicologicamente penalizzante e fisicamente nocivo. Non colmare correttamente l’appetito porta a sentirsi stressati, stanchi, indisposti ad affrontare qualsiasi difficoltà e il temporaneo vantaggio ponderale della restrizione alimentare e non svilupperebbe nel tempo uno stato idoneo di salute e di capacità nel portare a termine con successo la terapia.

                  Tratto dal libro “Corpi uguali, Storie diverse” del dottor Luigi Oliva


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