5

Febbraio

2020

Obesità: andare oltre il BMI

Basarsi solo sul BMI per valutare la presenza o meno di obesità in un soggetto può essere fuorviante e spesso risultare erroneo. Ulteriori accertamenti diagnostici e misurazioni basate su altri dati possono contribuire a dare una risposta chiara e univoca.

L’obesità è una condizione clinica caratterizzata da un eccesso di peso corporeo per un eccessivo accumulo di massa grassa, in grado di indurre un aumento significativo dei rischi per la salute.

Fattori genetici e ambientali sono implicati nella patogenesi di tale disturbo. In particolare, nella maggior parte dei casi l’obesità è causata da stili di vita scorretti, come un’alimentazione ipercalorica e un ridotto dispendio energetico a causa di inattività fisica.

L’obesità si associa ad un aumento della morbilità per ipertensione, dislipidemia, coronaropatia, diabete mellito tipo 2, ictus, apnea notturna e cancro in varie sedi (mammella, endometrio, colon e prostata).

La principale complicanza è rappresentata dall’eccesso di morbilità cardiovascolare, soprattutto quando l’obesità si associa a ipertensione, diabete e dislipidemia come nella sindrome metabolica.

L’Indice di Massa Corporea (IMC o BMI – Body Mass Index) è il metodo più ampiamente utilizzato per classificare l’obesità, ed è il valore numerico che si ottiene dividendo il peso corporeo (espresso in Kg) per il quadrato dell’altezza (espressa in metri). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce sovrappeso la condizione nella quale l’IMC è uguale o superiore a 25 fino a 29.99, ed obesità quando l’IMC è uguale o superiore a 30.

Nello specifico si distinguono tre gradi di obesità:

  • obesità di I° grado (IMC 30-34.99)
  • obesità di II° grado (IMC 35-39.99)
  • obesità di III° grado (IMC ≥ 40)

Per la sua semplicità e rapidità d’uso, il BMI è un valido indice di rischio di morbilità e mortalità per osservazioni di popolazione ma, nonostante esso sia lo strumento più comunemente utilizzato per valutare l’obesità, a livello individuale non può essere considerato un valido indicatore della quantità di tessuto adiposo principalmente perché il suo numeratore (peso corporeo in Kg) non esprime solo la massa grassa dell’individuo ma anche la massa magra, comprensiva di massa muscolare, massa cellulare, acqua corporea e massa ossea.

Per questo motivo, nel tempo sono stati fatti vari tentativi per superare la definizione di obesità basata solo sul BMI.

Alcuni autori hanno proposto di classificare l’obesità in base alla percentuale di massa grassa del soggetto: tra questi, Deurenberg definisce obesità una condizione in cui la massa grassa sia ≥ 35% nelle donne e ≥ 25% negli uomini (Deurenberg P et al, 1988), mentre Heo considera come cut-off 39.9 % nelle donne e 27.5% negli uomini (Heo M et al, 2012).

Nella pratica clinica infatti, possiamo incontrare pazienti normopeso ma con massa grassa elevata e con due o più anomalie metaboliche (alterato metabolismo glucidico, dislipidemia, ipertensione…) che determinano un rischio cardiovascolare pari ai soggetti con BMI > 30.

Nell’ottica di rivedere la definizione di obesità, Aung et al nel 2014, confermando quanto detto in precedenza da Deurenberg e Heo, hanno definito tali soggetti “soggetti normopeso ma metabolicamente obesi”, aprendo le porte ad un’ulteriore definizione di obesità basata sul BMI del soggetto associato o meno alla presenza di morbilità obesità-correlate.

Chang Y et al infatti, nel 2014 hanno definito “obesità benigna” la condizione in cui il BMI > 30 non è associato ad alcun componente della sindrome metabolica (“pazienti obesi metabolicamente sani”); tale condizione è però transitoria e alla lunga aumenta lo stesso il rischio cardiovascolare (Kramer C et al, 2013).

Raramente, vi sono invece condizioni in cui l’essere obesi è protettivo e aumenta la sopravvivenza, come ad esempio in caso di diabete, ipertensione, ictus e paziente chirurgico: Luis Gruberg et al nel 2002 per la prima volta definirono tale situazione “paradosso obesità”.
In questo contesto la classificazione di Edmonton è un primo tentativo per passare oltre alla definizione classica basata solo sul BMI, ma sono necessari ulteriori studi clinici per validare tale scala. Edmonton nella sua scala classifica i pazienti obesi (BMI ≥ 30) in base alla condizione clinica.

Proposed Edmonton Obesity Staging System (EOSS), per pazienti con BMI ≥ 30

Stadio 0: il paziente non presenta fattori di rischio legati all’obesità (ad es. ipertensione, dislipidemia, alterato metabolismo glucidico…), non ha sintomi fisici, non ha limitazioni funzionali e/o una riduzione della qualità di vita.
Stadio 1: il paziente ha subcliniche morbilità obesità-correlate (ad es. ipertensione borderline, alterati enzimi di funzionalità epatica, ridotta tolleranza ai carboidrati…), lievi sintomi fisici (ad es. dispnea dopo esercizio fisico moderato, fatica…), lievi limitazioni funzionali o lieve riduzione della qualità di vita.
Stadio 2: il paziente ha patologie croniche legate all’obesità (ad es. ipertensione, diabete mellito tipo 2, apnee notturne, osteoartrite…), moderate limitazioni nelle attività quotidiane o una moderata riduzione della qualità di vita.
Stadio 3: il paziente ha danni d’organo come infarto del miocardio, scompenso cardiaco, complicanze diabetiche, osteoartrite invalidante, moderate psicopatologie e significativa limitazione funzionale e della qualità di vita.
Stadio 4: il paziente ha severe disabilità, potenzialmente terminali, dovute a patologie croniche legate all’obesità, severe psicopatologie e severe limitazioni e/o una severa riduzione della qualità di vita.

Visti i numerosi fenotipi con i quali l’obesità si può manifestare, possiamo concludere affermando che nonostante il BMI sia il più comune metodo utilizzato per classificare l’obesità, esso è limitativo e l’obesità classificata solo sulla base del BMI non può essere definita una patologia in sé senza prima aver effettuato ulteriori accertamenti clinici volti a valutare lo stato metabolico del paziente.


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