Gli ostacoli al dimagrimento

La resistenza al dimagrimento è determinata da meccanismi biologici, psicologici e comportamentali messi in atto dall’organismo in risposta ad un improvviso e drastico calo dell’assunzione calorica.

Una prescrizione dietetica troppo rigida determina un adattamento metabolico ovvero un abbassamento del valore del dispendio energetico iniziale di un valore pari al 20-25%.

In questo modo si assiste ad una perdita di peso iniziale che si arresterà quando l’apporto calorico della dieta sarà pari al dispendio energetico del soggetto a riposo.

E’ la differenza tra ciò che si consuma e ciò che si introduce che ci permette di perdere peso.

La massa adiposa viene metabolizzata (bruciata) per sopperire le calorie in difetto.
Se si vuole evitare l’adattamento metabolico e avere una perdita di peso costante bisogna misurare il consumo energetico a riposo e l’apporto calorico della dieta non dovrà discostarsi dal valore misurato.
Interventi dietetici basati su calcoli teorici o peggio ancora volutamente forzati verso un livello di calorie molto basso (inferiore alle 1100 calorie) determineranno dei danni biologici importanti.

Schematicamente i danni da dieta rigida possono essere riassunti in quattro categorie:

  • Adattamento metabolico
  • Compromissione della composizione corporea
  • Danni Psicologici
  • Danni Comportamentali
  • Adattamento metabolico

Come detto precedentemente, l’adattamento metabolico rappresenta la difesa dell’organismo all’improvvisa riduzione dell’introito calorico oponendosi in questo modo alla perdita di peso e favorendone un suo recupero immediato.

Il concetto di rigidità riferito ad una dieta è un valore assoluto quando si prescrivono diete forzatamente ipocaloriche (pari o inferiori a 1000 calorie) per il resto è un concetto relativo visto le differenti misure del dispendio energetico che si riscontrano nei vari soggetti.

Pertanto le 1500 calorie possono essere tante, poche o normali a seconda dei soggetti di riferimento.

Compromissione della composizione corporea

La perdita di peso, che spesso viene associata al dimagrimento, in realtà altro non è che perdita di massa corporea ovvero la perdita di tessuto adiposo, massa muscolare, massa cellulare, acqua.

Dimagrire in realtà dovrebbe significare divenire magri, quindi perdere grasso e non massa magra (muscolo, massa cellulare).

L’obiettivo della corretta nutrizione nel dimagrimento è quello di far coincidere la perdita di peso con la sola perdita di tessuto adiposo.
E’ nostra esperienza riscontrare come la perdita di peso superiore a 0,5 -1 Kg alla settimana difficilmente corrisponde alla perdita di solo tessuto adiposo, specie quando l’intervento dietetico è limitato nel tempo.

Nel lungo periodo, ossia quando l’intervento dietetico dura mesi, la corrispondenza tra perdita di peso e perdita di massa grassa è elevata.
Un intervento corretto, rapportato alle esigenze metaboliche misurate inizialmente e monitorate periodicamente, ci consente di modificare la composizione corporea a favore della massa magra (muscolare, cellulare).

La perdita di peso ottenuta con la sola prescrizione dietetica è seguita, in una percentuale altissima pari al 95%, da un recupero del peso superiore ai chili persi; cosicchè nel tempo, e dopo diversi interventi dietetici si pesa tanto più di prima. La percentuale di tessuto adiposo – che in un soggetto normale oscilla dal 15% al 30% – aumenta a parità di peso se l’individuo si è sottoposto a diversi regimi dimagranti.

Si comprende quindi il paradosso delle diete dimagranti che alla lunga sono “ingrassanti”. Se perdo e recupero dieci chili, perdo una percentuale di grasso che di certo è inferiore alla percentuale di grasso che accumulo nella fase di recupero del peso.

Danni comportamentali: perdita di controllo

La perdita di controllo ovvero l’incapacità di assumere la quantità di cibo desiderata e programmata è spesso preceduta da un periodo (ore o giorni) di marcata restrizione dell’apporto calorico.
La rigidità di una dieta deve essere definita relativamente al dispendio energetico del singolo individuo. E’ di certo rigida una dieta con apporto calorico inferiore alle 1000 calorie ma lo può essere anche la dieta di 1500 kcal o oltre se quel determinato individuo ha un dispendio energetico elevato.

Si impone, pertanto, la necessità della misurazione del dispendio energetico prima di impostare un regime alimentare, perché solo in questo modo si potrà essere certi che il dimagrimento non determinerà danni a carico del metabolismo, della composizione corporea e del comportamento alimentare.

La riduzione drastica dell’apporto calorico porta, in alcuni soggetti, alla perdita del controllo, all’iperalimentazione e al conseguente recupero del peso. L’intervento nutrizionale prescrittivo attuato con la calorimetria pertanto trova una sua collocazione ben precisa nell’intervento educazionale dell’obesità .

Visto che la calorimetria indiretta registra dispendi energetici a riposo superiori ai valori predetti in un numero elevato di soggetti con sovrappeso è possibile la prescrizione dietetica con apporto calorico alto.

Danni psicologici: i sensi di colpa

Il proposito di rispettare un piano prescritto seguito dall’incapacità di attuarlo porta nei soggetti obesi ad una disistima sempre maggiore che può sfociare in pensieri fallimentari depressivi che rischiano di compromettere la qualità della vita.

Nei soggetti obesi o sovrappeso, con alle spalle una lunga storia di perdita e recupero del peso, è di frequente riscontro, o meglio è quasi sempre presente, il circolo vizioso dei sensi di colpa.

La dieta rigida intesa come prescrizione, ma principalmente come messaqgio o proposito dimagrante senza possibilità di trasgressione, porta allo sviluppo di pensieri e comportamenti che perpetuano l’obesita. Un’obesita con disturbo del comportamento alimentare.

La dieta rigida prima o poi è seguita dalla perdita di controllo che porta ad un’assunzione di cibo per quantità e modalità diversa dai soggetti normopeso.

L’abbuffata è seguita dai sensi di colpa e da una situazione fallimentare depressiva. Questa mette in atto quei meccanismi emotivi e metabolici che portano a consolarsi con altro cibo in attesa di avere un’altra volta la voglia di ricominciare o di sperimentare qualcosa di nuovo.

La persistenza di tale stato fallimentare depressivo e lo sperimentare il peso dei sensi di colpa, che pesano di più dei chili stessi, innesca dei meccanismi differenti nei vari soggetti.

I soggetti giovani, con una forte motivazione estetica associata ad un insoddisfazione corporea marcata, possono arrivare al vomito -tecnica dimagrante semplice ed economica- o al rifiuto di cibo: nel primo caso per liberarsi dai sensi di colpa e dal cibo stesso, nell’altro per non sperimentare ancora i sensi di colpa. Si capisce come le due situazioni rappresentino l’anticamera di anoressia e bulimia.

Un terzo gruppo di soggetti -meno giovani e con più fallimenti alle spalle- decide di accettare l’obesità stessa vista l’incapacità di non riuscire nell’intento dimagrante;
accettazione apparente ma obbligata e in grado di far stare meno male rispetto ai sensi di colpa di cui si è stati più volte vittima.


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    Obesità: che fare?

    L’obesità è una patologia caratterizzata da una patogenesi multifattoriale e da una presentazione clinica complessa e variabile.

    L’obesità è una patologia caratterizzata da una patogenesi multifattoriale e da una presentazione clinica complessa e variabile.

    L’OBESITÀ: UNA PATOLOGIA MULTIFATTORIALE

    Il contesto di diagnosi e cura di una patologia come l’obesità dovrebbe sempre tener conto della multidimensionalità, e quindi della necessità, di un approccio gestito da professionisti differenti e con competenze specifiche. Professionisti che interagiscono tra di loro in una cooperazione intenzionale, consapevoli che l’intervento di ciascuno faciliterà gli altri aumentando l’efficacia complessiva della terapia.

    Un approccio interdisciplinare è l’unico in grado di fornire una risposta completa e approfondita alla domanda di cura del paziente e ai suoi bisogni.

    L’equipe interdisciplinare, secondo il modello bio-psico-sociale, dovrebbe essere composta almeno da queste figure:

    • dietista/nutrizionista
    • medico obesiologo
    • psicologo-psicoterapeuta
    • personal trainer/esperto attività motoria
    • case manager

    La presenza di altri professionisti( psichiatra, endocrinologo, internista, fisiatra ecc.) costituirebbe un arricchimento, sia diagnostico che terapeutico.

    QUALE DIETA? QUANTE CALORIE?

    Dal punto di vista nutrizionale, la prescrizione di una dieta non restrittiva (di apporto calorico pari o superiore al metabolismo basale ) in grado, quindi, di soddisfare i fabbisogni energetici basali, riduce il pensiero costante sul cibo e sul controllo e permette la creazione di spazi mentali utili per il lavoro psicologico motivazionale verso il cambiamento.

    L’attività motoria, inoltre, grazie all’attivazione dei circuiti neurobiologici del benessere, contribuisce a creare una condizione mentale ottimale per lavorare su se stessi e cogliere la convenienza del cambiamento.

    La dieta che salvaguarda l’integrità nutrizionale oltre a contenere i diversi macronutrienti secondo un apporto calorico bilanciato, dev’essere equilibrata rispetto alla spesa energetica, cioè assicurare un introito calorico complessivo sicuro non inferiore al valore del dispendio energetico a riposo (De Lorenzo & Di Rienzo, 2010).  È quindi raccomandabile l’utilizzo della calorimetria indiretta per poter effettuare una prescrizione dietetica mirata ai fabbisogni energetici del singolo individuo (McClave et al., 2013).

    La dieta deve poi essere formulata anche sulla base dei parametri che giustificano l’eccesso adiposo e valutano la massa magra (De Lorenzo & Di Rienzo, 2010). A tal proposito, la bioimpedenziometria è un esame che permette di analizzare quantitativamente e qualitativamente la composizione corporea iniziale e le sue modifiche in corso di terapia.

    QUALE OBIETTIVO?

    La figura del dietista/medico nutrizionista è quindi essenziale perché il paziente venga accompagnato in un percorso utile alla perdita del peso, al mantenimento e all’apprendimento dell’alimentazione salutare e bilanciata.

    Nonostante questa parte sia di fondamentale importanza, la perdita di peso non è l’obiettivo principe della terapia e non può essere ottenuto con la sola prescrizione dietetica. E’ stato infatti dimostrato che la maggior parte dei trattamenti dietetici da soli ha un tasso di fallimento a cinque anni che varia dal 60 al 90% (De Lorenzo, 2009).

    Secondo recenti scoperte del National Weight Control Registry, inoltre, avere un obiettivo in termini di peso è controproducente: ancora peggio è poi stabilire un peso ideale come obiettivo, in quanto le possibilità di raggiungerlo e mantenerlo sono pressoché nulle e la persona tenderà a non focalizzarsi sugli altri cambiamenti ottenuti.

    Il lavoro del medico nutrizionista deve quindi essere integrato da quello dello psicologo che prevede la strutturazione di un intervento motivazionale in fase iniziale per far nascere nel paziente il desiderio del cambiamento ed educarlo alla valorizzazione dei guadagni terapeutici che diventeranno così rinforzi motivazionali.

    GESTIRE IL CAMBIAMENTO

    Un recente studio meta-analitico ha evidenziato che l’adozione del colloquio motivazionale con un paziente obeso in trattamento è associato ad una riduzione della massa corporea significativamente superiore rispetto a quella che si ottiene quando questo non viene proposto (Armstrong et al., 2011).

    In un’ottica di cambiamento è tanto importante il sostegno motivazionale quanto l’acquisizione di abilità per prevenire le ricadute e gestire i risultati ottenuti nel lungo periodo (Brownley et al., 2010).

    Il paziente, attraverso un lavoro cognitivo e comportamentale, fa esperienza (“fare”), apprende abilità (“saper fare”) e successivamente interiorizza la competenza (“sapere di sapere come fare”) diventando attore protagonista del cambiamento. Da ricerche effettuate tramite il National Weight Loss Registry si identificano fattori chiave presenti in programmi di trattamento proposti a pazienti che hanno raggiunto un’importante perdita di peso mantenuta a cinque anni. Tra questi fattori si ritrovano abilità di pianificazione, problem solving e introduzione di cambiamenti realistici, appropriati, incrementali, positivi e specifici. Trattamenti che includono automonitoraggio, specificazione degli obiettivi e insegnamento di strategie per il mantenimento a lungo termine sono associati ad una maggiore perdita di peso nel tempo(Le Blance et al., 2011).

    Secondo il modello biopsicosociale (Engels, 1977) oltre alla componente biologica e a quella psicologica, dev’essere tenuto in considerazione l’ambiente all’interno del quale questo cambiamento avviene. Per questo, si rende indispensabile il coinvolgimento della famiglia in un contesto di terapia o di flusso informativo bidirezionale.

    MANGIA CIÓ CHE TI SERVE MA MUOVITI PER DIMAGRIRE

    Un approccio interdisciplinare alla cura dell’obesità prevede la prescrizione dell’attività motoria in associazione alla riabilitazione psiconutrizionale: per questo l’equipe deve includere un operatore esperto in tale ambito.

    È dimostrato che un trattamento che includa ambedue le componenti è più efficace e consente il mantenimento della perdita di peso nel lungo periodo (Gourlan et al., 2011).

    Inoltre, l’associazione di attività fisica e dieta produce dei miglioramento nei fattori di rischio e nel peso con un picco di intensità a 12 mesi dall’inizio del programma (Dombrowsky et al., 2010).

    L’attività motoria ha la capacità di apportare benefici insostituibili non solo a livello di salute e di gestione del peso, ma anche a livello neurologico stimolando il circuito dopaminergico responsabile della sensazione di piacere e di soddisfazione (Wang et al., 2011).

    Pertanto, il movimento può essere considerato un farmaco naturale che, in quanto tale, viene somministrato al paziente secondo precisi dosaggi:

    • con un esercizio fisico aerobico di intensità moderata di durata inferiore ai 150 min a settimana la riduzione ponderale è minima;
    • con 150-250 min a settimana la riduzione è modesta (2.3 kg in 6-12 mesi);
    • una durata compresa tra 250 e 400 min a settimana è associata ad un decremento ponderale di circa 5,0-7,5 kg in 6-12 mesi. (Fonte S.I.O. – Società Italiana dell’Obesità, 2012)

    A questo proposito, l’educazione al movimento è parte costituente fondamentale della terapia per l’obesità. L’uso del contapassi in questo caso è molto utile e ha un effetto positivo nell’aumento dell’attività fisica quotidiana (Kang et al., 2009).

    IL CASE MANAGER

    All’interno dell’equipe interdisciplinare, la figura del case manager è essenziale per la gestione ottimale del caso clinico. Il piano di cura, infatti, dev’essere disegnato ad personam e continuamente ricalibrato per tutta la durata del percorso terapeutico (Consensus SIO-SISDCA); pertanto il case manager associa a competenze di merito, proprie e delle altre discipline, capacità organizzative che gli permettano di diventare figura di riferimento per il paziente e gli operatori.

    L’introduzione di questo operatore permette di raggiungere la massima integrità e appropriatezza del trattamento e facilita la comunicazione del team con figure professionali esterne. Nella gestione di un patologia cronica, infatti, il team deve costruire una rete di riferimento di cui il paziente possa avvalersi una volta che il suo percorso all’interno della struttura si sarà concluso

    Il trattamento interdisciplinare alla cura dell’obesità consente di prendere in carico il paziente a 360 gradi, sottolineandone il ruolo attivo e di accompagnarlo in un processo di cambiamento a lungo termine. Inoltre, presuppone un continuo confronto reciproco e quindi una sinergia e un’efficacia difficili da raggiungere con altri metodi di lavoro.

    D’altra parte questo tipo di intervento include degli aspetti problematici che possono ostacolarne l’applicazione: in primo luogo è difficile partire da una premessa clinica condivisa tra specialisti con formazione differente e sviluppare un linguaggio comune che apra al dialogo e al confronto in merito ad una patologia così complessa.

    Non è da sottovalutare anche la difficoltà associata alla creazione di una filosofia di lavoro comune in merito alla concezione del proprio operato, del paziente, della persona, secondo un modello di riferimento. In un contesto multi professionale integrato, inoltre, ci sono costi elevati da sostenere per garantire la compresenza nella struttura dei diversi professionisti e la costruzione ad hoc di materiali clinici condivisi, oltre alla disponibilità degli strumenti specifici di ciascuna disciplina. Dal punto di vista pratico occorre predisporre uno spazio concreto che sia luogo di scambio, confronto e consulenza immediati tra colleghi.

     

    BIBLIOGRAFIA

    McClave SA et al. The use of indirect calorimetry in the intensive care unit. Curr OpinClin Nutr Metab Care. 2013; 16(2): 202-8

    Brownley KA et al. Evidence-Informed Strategies for Binge Eating Disorder and Obesity. In: Dancyger DA, Fornari VM. Evidence-Based Treatments for Eating Disorders. Chapter 13, pag 231-256, Nova Science Publisher, New York, 2009.

    Armstrong MJ et al. Motivational interviewing to improve weight loss in overweight and/or obese patients: a systematic review and meta-analysis of randomized controlled trials. Obes Rev. 2011; 12(9): 709-23.

    Dombrowski SU et al. Behavioural interventions for obese adults with additional risk factors for morbidity: a systematic review of effects on behaviour, weight and disease risk factors. Obes Facts. 2010; 3(6): 377-96.

    Gourlan et al. Interventions promoting physical activity among obese populations: a meta – analysis considering global effect, long-term maintenance, physical activity indicators and dose characteristics. Obes Rev. 2011; 12(7): 633-45.

    Kang M et al. Effect of pedometer-based physical activity interventions: a meta-analysis. Research Quarterly for Exercise and Sport. 2009; 29(2): 105-14.

    LeBlanc ES et al. Effectiveness of primary care-relevant treatments for obesity in adults: a systematic evidence review for the US preventive services task force. Ann Intern Med. 2011; 155(7): 434-47.

     

    George LE. The Need for a New Medical Model: A Challenge for Biomedicine. Science. 1997; 196(4286): 129-136.


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      Obesità: il trattamento

      I cardini su cui si fonda il trattamento dell’obesità e ogni serio programma di controllo del peso sono la valutazione nutrizionale e del comportamento alimentare e la terapia cognitivo comportamentale per la modifica dello stile di vita e l’acquisizione di abilità comportamentali per la gestione dei risultati ottenuti.

      I cardini su cui si fonda il trattamento dell’obesità e ogni serio programma di controllo del peso sono la valutazione nutrizionale e del comportamento alimentare e la terapia cognitivo comportamentale per la modifica dello stile di vita e l’acquisizione di abilità comportamentali per la gestione dei risultati ottenuti.

      Il successo a lungo termine sarà più probabile se la perdita di peso sarà secondaria alla modifica delle idee e dei comportamenti disfunzionali che determinano l’instaurarsi e il mantenimento dell’obesità.

      Obiettivi: raggiungere e mantenere un calo ponderale utile per la riduzione del rischio vascolare e metabolico ( < del 10-20% del peso iniziale).

      Con la sola dieta dimagrante la recidiva (e cioè il riguadagno del peso perso) è frequentissima (nel 90-95% dei casi).

      È determinata da fattori biologici (diminuzione della spesa energetica successivi al regime dietetico) comportamentali (la restrizione porta alla perdita di controllo) psicologici (la perdita di controllo e la conseguenza trasgressione innesca il vortice dei sensi di colpa, depressione, fallimento, altro cibo…).

      La dieta senza la giusta attenzione alla persona è fallimentare.

      La promozione della salute

      Per quanto attiene all’obesità è ormai dimostrato che nel suo trattamento l’intervento di ordine psico-comportamentamenle è fondamentale nel determinare il successo terapeutico, anche se deve essere ribadito che si tratta di una condizione definita su base morfologica ma non ancora adeguatamente inquadrata su base psicopatologica.

      Lo studio e la cura dell’obesità e più in generale della sindrome metabolica, si intrecciano profondamente e indissolubilmente con lo studio e la cura del comportamento alimentare e dei suoi disturbi (anoressia nervosa, bulimia nervosa, binge eating syndrome etc.) per quanto suddetto e per almeno tre altri motivi:

      • per tutte queste patologie nessuna cura è efficace se non implica un cambiamento profondo del comportamento alimentare e dello stile di vita;
      • cure inadeguate dell’obesità sono corresponsabili del grande aumento dei disordini alimentari nel mondo contemporaneo;
      • come la cura dell’obesità, anche quella dei disturbi del comportamento alimentare (DCA) è multidisciplinare e impone la collaborazione tra internisti, nutrizionisti, psichiatri e psicologi.

      Sia per l’obesità che per i disturbi del comportamento alimentare si segnalano la gravissima insufficienza delle strutture sanitarie, l’inadeguatezza della formazione attuale di base e la necessità di un approccio multidimensionale.

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      Digiuno intermittente

      Il digiuno intermittente  è uno schema alimentare che prevede l’alternanza tra periodi di astensione dal cibo con periodi di assunzione controllata di cibo. L’esame della calorimetria indiretta è utile per stabilire stabilisce l’esatta prescrizione dietetica.

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      Percorso dietologico

      Dedicato alle persone che nonostante sappiano il “cosa fare” non riescono a mettere in pratica il “come fare” perché incontrano, lungo il percorso, ostacoli e resistenze che non riescono a gestire. Se non sbagli dieta dimagrire è facile!

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      Farmacologico

      I farmaci per la cura dell’obesità come semaglutide e tirzepatide segnano un cambio di passo nella cura dell’obesità, la loro efficacia è superiore alle aspettative.

      Cambio di passo nella cura dell'obesità Richiedi

      Percorso mesoestetico

      E’ un percorso che prevede l’attivazione del metabolismo locale tramite l’iniezione intradermica di principi attivi certificati per efficacia e sicurezza.

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      Reazioni avverse agli alimenti

      Vengono definite allergie alimentari quelle manifestazioni che seguono a distanza di tempo variabile l’ingestione di determinati alimenti ed il cui meccanismo è una reazione immunologicamente mediata nei confronti dell’allergene.

      Vengono definite allergie alimentari quelle manifestazioni che seguono a distanza di tempo variabile l’ingestione di determinati alimenti ed il cui meccanismo è una reazione immunologicamente mediata nei confronti dell’allergene.

      Le manifestazioni patologiche comprendono:

      • Sindrome orale allergica
      • Rinocongiuntiviti
      • Orticaria/Angioedema
      • Dermatite atopica
      • Asma
      • Vomito/diarrea/dolore addominale
      • Shock anafilattico

      Vi sono evidenze che questa sensibilità sia da imputare a un meccanismo IgE mediato ed è inoltre stata anche riscontrata una frequente associazione tra la sintomatologia allergica e la pollinosi.

      Gli alimenti più frequentemente responsabili dei disturbi orali ai quali si possono poi associare anche gli altri sintomi sono per l’adulto: la mela, la pesca, la nocciola, la noce, l’arachide, l’albicocca, la pera, la ciliegia e la mandorla nel gruppo alimentare della frutta, mentre per quanto riguarda la verdura il pomodoro, il finocchio, il sedano e la carota.

      Vengono definite intolleranze alimentari le sindromi in cui anche se si è dimostrato un rapporto tra l’insorgenza dei sintomi e l’assunzione dell’alimento, non è dimostrata una reazione immunologica.

      Le manifestazioni patologiche si differenziano in relazione alle sostanze che determinano le sindromi: l’enteropatia da intolleranza al glutine o malattia celiaca è caratterizzata da sindrome da malassorbimento e quindi:

      • Anemia sideropenica in assenza di perdite ematiche
      • Carenza di folati
      • Steatorrea
      • Alvo diarroico con importante volume fecale
      • Sindrome dismetabolica ossea
      • Perdita di peso corporeo
      • Pluricarenze minerali e vitaminiche

      In questi casi, gli alimenti da escludere dalla dieta sono tutti quelli che contengono anche se in tracce: grano, orzo, avena, segale.

      Gli additivi ed i conservanti provocano reazioni avverse quali:

      • Accessi asmatici e rush cutanei se l’additivo è rappresentato da solfiti. Questi conservanti vengono aggiunti soprattutto in: vino bianco, birra, succhi di frutta, frutta secca, verdura congelata, in scatola o liofilizzata, marmellate, salse, sughi, frutti di mare e crostacei.
      • Parestesie del collo, del torace e degli arti superiori, palpitazioni e sensazione di debolezza, cefalea (cosiddetta “sindrome del ristorante cinese”) se l’additivo è rappresentato dal sodio monoglutammato. Si tratta di un derivato dell’acido glutammico aggiunto in alimenti quali carni conservate, cibi precotti o preconfezionati, cracker, salse, concentrati di pomodoro e di soia, parmigiano ed estratti per brodo, a scopo di accentuarne la palatabilità.
      • Reazioni di tipo orticarioide se l’additivo è costituito da tartrazina (E102) o da eritrosina (E127) Si tratta di due coloranti rispettivamente di colore giallo e rosso, che vengono aggiunti in bibite, sciroppi, liquori, canditi, gelati, ghiaccioli e medicinali.
      • Cefalea ed orticaria cronica se l’additivo è costituito da nitrati o da nitriti. Questi conservanti possono essere contenuti in cibi come pesce affumicato, salumi, wurstel, salsicce e carne in scatola.
      • Reazioni avverse aspecifiche possono inoltre essere causate dall’acido acetilsalicilico che viene utilizzato come conservante per pomodori, zucchine, cetrioli, meloni, uva, agrumi e mele e dall’idroanizolo butilato (BHA) e idrossitoluene butilato (BHT) che sono due antiossidanti contro l’irrancidimento di alimenti contenenti grassi insaturi.

      Ci sono molti alimenti che contengono (o che liberano dopo l’ingestione) sostanze ad attività simil-farmacologica quali:

      • Amine vasottive (istamina, tiramina) contenute in pesci (arringhe, acciughe, sardine, salmone, tonno), crostacei, pomodori, spinaci, uova (albume), fegato, formaggi fermentati, salumi, vini, birra, cioccolata, estratti di lieviti, frutta fresca ( fragole, banane, ananas) e frutta secca (arachidi, nocciole, mandorle), che possono provocare reazioni avverse come l’orticaria, la cefalea, la nausea, la tachicardia e l’ipotensione.
      • Metilxantine (caffeina, teofillina, teobromina) contenute rispettivamente nelle bevande e negli alimenti a base di caffè; nelle bevande a base di tè; nelle bevande e negli alimenti a base di cioccolato e di cacao, che possono provocare tachicardia, vasospasmo, cefalea.
      • Etanolo (tutte le bevande e gli alimenti contenenti etanolo), possono determinare reazioni avverse di tipo inibitorio sull’apparato gastroenterico, cardiocircolatorio e sul sistema nervoso centrale e periferico.
      ALIMENTO  CONTENUTO MEDIO IN TIRAMINA
       (per 100 g di alimento)
       Aringhe  303 mg
       Estratto di lievito  150 mg
       Chaddar  146 mg
       Patate  84 mg
       Uva  69 mg
       Cavolo  67 mg
       Tonno  57 mg
       Emmenthal  51 mg
       Cavolfiore  40 mg
       Grana  29 mg
       Spinaci  25 mg
       Pomodoro  25 mg
       Pecorino  24 mg
       Camembert  20 mg
       Brie  18 mg

       

      Alimenti ad elevato contenuto in ISTAMINA
:

      • Pesce
      • Pomodoro
      • Uovo (albume)
      • Fragola
      • Crostacei
      • Maiale
      • Salumi
      • Cavolo
      • Vino
      • Birra

      Alimenti ad elevato contenuto di TIRAMINA

      • Formaggi fermentati
      • Conserve di pesce come sardine, aringhe, tonno
      • Salse a base di soja
      • Birra
      • Vini rossi e bianchi
      • Nocciole
      • Cioccolata
      • Oli di semi vari
      • Fagioli
      • Fave
      • Minestre in buste confezionate con prodotti a base di lievito
      • Condimenti in polvere e sughi con verdure
      • Lievito concentrato o estratti

      Possibili sintomi:
 orticaria, vasodilatazione, cefalea, nausea, tachicardia, ipotensione.


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        Metabolismo e tiroide

        Gli ormoni tiroidei stimolano il metabolismo energetico promuovendo il consumo dei grassi e degli zuccheri allo scopo di produrre energia

         

        Gli ormoni tiroidei stimolano il metabolismo energetico promuovendo il consumo dei grassi e degli zuccheri allo scopo di produrre energia.

        Infatti inducono il rilascio dei grassi dai depositi del tessuto adiposo, favoriscono il loro ingresso nelle cellule e infine ne stimolano l’ossidazione per ottenere energia chimica e calore. T3 e T4 esercitano effetti simili anche sugli zuccheri, promuovono il rilascio di glucosio dai depositi del fegato, ne favoriscono l’ingresso nelle cellule e la trasformazione a scopi energetici.

        Un particolare tessuto in cui gli ormoni tiroidei aumentano la produzione di calore è il tessuto adiposo bruno. Si tratta di un tessuto presente in piccole quantità nel corpo umano ma molto importante nel mantenimento costante della temperatura corporea. Quando il corpo è esposto a temperature fredde gli ormoni tiroidei stimolano la produzione di calore nel tessuto adiposo bruno. É un tessuto molto importante anche negli animali che vanno in letargo, poiché garantisce il mantenimento della temperatura corporea anche in assenza di movimento e alimentazione. Nell’uomo è molto attivo nel neonato e tende poi a ridursi, ma non a scomparire, nell’adulto. Nel tessuto adiposo bruno avviene l’ossidazione dei grassi nei mitocondri e l’energia prodotta viene tutta trasformata in calore.

        Le malattie che causano ipertiroidismo si caratterizzano per l’aumento del metabolismo, cioè di tutti i processi di produzione di energia, e questo comporta frequentemente il dimagrimento per il consumo delle scorte di grasso e delle proteine muscolari. L’eccessiva ossidazione di substrati, una specie di “combustione senza fiamma”, produce anche un aumento della temperatura corporea, una febbricola che di solito non supera i 38°C, dovuta all’incremento della produzione di calore che viene dissipato attraverso la pelle.

        Nell’ipotiroidismo, all’opposto, il metabolismo e tutti i processi chimici sono rallentati e il minore consumo di grassi produce aumento del peso corporeo, minore produzione di calore e l’abbassamento della temperatura corporea. È però opportuno precisare che l’aumento di peso, di solito di pochi chilogrammi, si verifica solo quando l’ipotiroidismo è marcato. Questo significa che l’ipotiroidismo non è responsabile dell’aumento di peso nella maggior parte dei casi di obesità e sovrappeso le cui origini vanno ricercate nella sedentarietà e nell’alimentazione scorretta.

        Tratto da “La Tiroide dalla A alla Z” di Claudio Pagano, Pragmata Edizioni, Roma

        Claudio Pagano-endocrinologo-


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          Early Adiposity Rebound

          Dalle rilevazioni del 2016 effettuate dal sistema di sorveglianza nazionale Okkio alla salute è risultato che i bambini in sovrappeso rappresentano il 21,3% della popolazione infantile ed i bambini obesi il 9,3%, compresi i bambini gravemente obesi che rappresentano il 2,1% con prevalenze più alte nelle regioni del Sud e del Centro.

          Dalle rilevazioni del 2016 effettuate dal sistema di sorveglianza nazionale Okkio alla salute è risultato che i bambini in sovrappeso rappresentano il 21,3% della popolazione infantile ed i bambini obesi il 9,3%, compresi i bambini gravemente obesi che rappresentano il 2,1% con prevalenze più alte nelle regioni del Sud e del Centro.
          Rispetto alle rilevazioni effettuate nel 2008-2009 il fenomeno dell’obesità è diminuito, ma rispetto alle rilevazioni del 2014 si è osservato un leggero aumento del sovrappeso.
          Premesso che il fenomeno dell’obesità infantile è caratterizzato da un mix di fattori genetici ed ambientali, i fattori di rischio precoci ( tra 0 e 5 anni) e predittivi possono essere riassunti in :
          • presenza di obesità nei genitori;
          • peso neonatale elevato;
          • eccessivo incremento di peso nel primo anno di vita;
          • early adiposity rebound in età inferiore ai 5 anni.

          Early Adiposity Rebound

           

          La nostra composizione corporea è caratterizzata da massa grassa, massa muscolare e acqua intra ed extracellulare; tali componenti sono in continua mutazione durante le fasi vitali dell’organismo ed in particolare la  percentuale di massa adiposa (per cento della massa corporea totale) presenta nel corso della crescita variazioni fisiologiche con un’alternanza di periodi di aumento e di diminuzione rappresentate dall’andamento del grafico del body mass index in funzione dell’età .

          Nella popolazione generale in età pediatrica, dopo l’età di un anno infatti, i valori di BMI diminuiscono per poi stabilizzarsi e riprendere ad aumentare mediamente solamente dopo l’età di 5-6 anni. L’età alla quale si raggiunge il valore minimo prima dell’aumento fisiologico del BMI si chiama adiposity rebound AR e mediamente corrisponde all’età appunto di 5-6 anni.

           

           

          E’ stato  dimostrato  che se  l’AR se inizia “anticipatamente”, nell’età 2-5 anni, invece che all’età di 5-7 anni viene definito come Early Adiposity Rebound  e rappresenta un fattore di rischio ed al contempo un marker di riconoscimento per il successivo sviluppo di sovrappeso ed obesità nell’età adolescenziale ed adulta.

          Questo marker ci conferma come lo stato del BMI nei primi anni di vita ha un valore predittivo basso per lo sviluppo successivo di obesità in quanto adulti obesi non sono stati obesi nel periodo prescolare ma semplicemente hanno avuto un Early Adiposity rebound per esempio a tre anni anziché a sei anni come solitamente riscontrato in adulti sani normopeso.

          Fonti :

          “Early adiposity rebound”: indicatore precoce di rischioper lo sviluppo di obesità e di complicanze metaboliche. Maurizio Iaia Pediatra di famiglia e di comunità, AUSL Cesena, ACP Romagna

          Okkio alla salute: i dati nazionali 2016

          Federica Mercuri-dietista-


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            Il decalogo della persona attiva

            Una vita sana è una vita attiva, ma fare movimento non equivale per forza a interminabili sedute in palestra, ci si può mantenere attivi anche nelle normali attività di ogni giorno.

            Di seguito una decina di utili comportamenti da tener presenti per attivare il metabolismo e massimizzare gli effetti di un piano alimentare ipocalorico:

            1. Cercare sempre di massimizzare le opportunità di movimento (pensare attivo).
            2. Monitorare il numero di passi giornalieri incrementando il numero fino a 10000 passi (armband o segnapassi).
            3. Spostarsi a piedi per distanze inferiori al chilometro (1300 passi 10 minuti).
            4. Usare le scale e mai l’ascensore.
            5. Andare al lavoro a piedi o in bici. Se non è sempre possibile scegliere i momenti migliori: es. il giorno in cui si inizia più tardi oppure quando c’è la pausa pranzo più lunga, etc.
            6. Parcheggiare lontano dal luogo in cui si deve andare: al supermercato nel posto più lontano del parcheggio, alle poste, in banca, dai parenti, etc.
            7. Salire o scendere dall’autobus una fermata prima o dopo.
            8. Camminare almeno 30 minuti oltre la normale attività lavorativa.
            9. Programmare 3/4 momenti settimanali di attività fisica (nuoto, palestra, jogging, bici )
            10. In casa , se possibile , usare per 20 minuti , la cyclette o il tapis roulant.

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              Radicali liberi: valuta il tuo stato ossidativo

              I radicali liberi, molecole altamente reattive sono di due tipi. Quelli endogeni, che si formano naturalmente nel nostro organismo e quelli esogeni che provengono dall’esterno (inquinanti presenti nell’aria o nel cibo).

              I radicali liberi, molecole altamente reattive, sono di due tipi: quelli endogeni, che si formano naturalmente nel nostro organismo, e quelli esogeni che provengono dall’esterno (inquinanti presenti nell’aria o nel cibo). I radicali liberi possono provocare alterazioni importanti delle strutture cellulari influenzando la comparsa di molte malattie compresi certi tipi di tumore e le malattie cronico degenerative in genere. Influiscono in maniera determinate sui processi di invecchiamento dell’organismo.

              I sistemi di difesa propri del nostro organismo e delle sostanze presenti nei cibi possono difenderci da questi attacchi. Esiste quindi un fronte di attacco (radicali liberi) e una difesa che può e deve essere potenziata.

              Possiamo ridurre l’esposizione ma anche aumentare le difese con i cibi o mediante gli integratori. Un ruolo importante riveste, quindi, un’apporto nutrizionale adeguato ai fabbisogni individuali.


              Oggi è possibile poter conoscere il grado di aggressione a cui siamo sottoposti ma anche l’efficienza del nostro sistema di difesa.

               

              Il concetto del tempo

              Il tempo non è accessorio dell’esperienza ma è l’esperienza stessa che non sarebbe tale se non fosse “costituita” di tempo.

              Il concetto del tempo è un punto focale della terapia, inteso come rispetto reciproco del tempo che l’equipe e il paziente dedicano al percorso, ma anche quello adeguato da dedicarsi e da dedicare all’esperienza dietologica indispensabile per un processo di cambiamento fisco e mentale.

              Quando una persona intraprende un percorso di cura di sé il primo aspetto da comprendere è se dedica un tempo adeguato a se stesso. Si parla di tempo “utile” in quanto è impiegato per diversi scopi: per la terapia intesa come incontri con frequenza costante, per i 5 pasti giornalieri mettendo quindi in atto il frazionamento, il tempo per l’attività motoria, tempo per ascoltarsi e pensare, per fermarsi e cogliere i segnali di stop nel comportamento impulsivo, tempo per lavorare su un aspetto importante della terapia che definiamo “essere pronto” (comprensione della motivazione al percorso, ostacoli/resistenze incontrati con la compilazione di materiale cartaceo).

              Un altro significato che dobbiamo cercare di associare al tempo è che sia “adeguato”, per cui non posso pensare che per consumare un pasto possano bastare 5 minuti, devo cercare di concedermi un tempo adeguato per prendermi cura di me e quindi dedicarmi almeno 30 minuti a pasto dove mi siedo a tavola e penso solo a consumare il pranzo, non impiego quel tempo per lavorare.

              Questo aspetto può essere esteso anche in altri contesti, come ad esempio se parliamo del movimento: non posso dedicare all’attività motoria solo un momento temporale che va da uno spostamento ad un altro durante la giornata lavorativa, devo cercare di ritagliarmi del tempo per svolgere un’attività strutturata che sia piacevole e utile per gestire la tensione che accumulo durante le ore lavorative.

              Sempre più richieste che giungono alla nostra attenzione sono la conseguenza del fatto che le persone non riescono nella quotidianità a ritagliarsi del tempo per sé. Spesso la causa principale è una modalità di pensiero che porta la persona a sbilanciarsi sui “devo” rispetto ai “voglio”. In questo caso la persona si fa travolgere dai numerosi impegni quotidiani tra cui il lavoro, la famiglia e tanti altri “devo”, dimenticandosi di sé. I pazienti si descrivono come travolti dalla quotidianità.

              Pertanto un intervento che viene proposto nella fase iniziale è proprio sulla gestione del tempo, l’operatore che segue il paziente su questo aspetto in prima battuta raccoglie informazioni sulla quotidianità per comprendere quali ostacoli e resistenze portano alla mancata possibilità di ritagliarsi del tempo, successivamente viene chiesto al paziente di fare un’esperienza attraverso un approccio cognitivo-comportamentale dove la richiesta è quella di mettere in atto un’azione. Il terapeuta accompagnerà la persona a soffermarsi sui piccoli cambiamenti che giorno per giorno metterà in atto. In questo modo inizierà a notare che esistono altri significati che il tempo può acquisire e grazie a questi l’effetto dell’esperienza cambierà. Risulterà piacevole comprendere come il darsi tempo comporti un benessere oltre che fisico anche psichico.


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                Perché muoversi

                Tutti i tipi di attività fisica, purché svolti con criterio, portano indubbi vantaggi sotto diversi fronti e aiutano a progredire con successo nel percorso verso il cambiamento, metabolico e comportamentale e verso il successo del percorso di dimagrimento.

                L’attività fisica, soprattutto al di fuori della comunità medico-scientifica, viene spesso vista esclusivamente in funzione del riequilibrio della bilancia introito alimentare-consumo energetico.

                In realtà i benefici che il paziente obeso ricava da un aumento dell’attività fisica e dal contrasto della “naturale” tendenza alla sedentarietà, vanno ben oltre il semplice aumento della spesa energetica.

                L’attività fisica, non incrementa solo il dispendio energetico, ma protegge e accresce la massa magra a svantaggio di quella grassa. L’innalzamento della stimolazione neuro-ormonale, che consegue a un aumento dell’attività, agisce anche sul tono dell’umore, migliorando tutti i fattori psicologici. L’attività fisica inibisce l’appetito e rappresenta anche un fattore di riduzione del rischio di mortalità e morbilità.

                Sul piano psicologico i benefici dell’attività fisica si estendono a sfere particolarmente importanti per il paziente obeso: si rileva, infatti, un miglioramento dell’autostima e dell’autoconsiderazione. Questo aspetto non è da sottovalutare perché consente di interrompere il circolo vizioso che di frequente ha portato l’obeso a cercare rifugio nel cibo come compenso di insuccessi nella vita quotidiana.

                L’attività fisica deve però essere regolata ed a livelli proporzionali alle capacità dell’individuo, poiché si rischia di perdere del tutto i benefici, aggravando il quadro clinico.

                Il movimento agisce poi anche sul versante “biologico”, riducendo i rischi di comorbosità; essa, infatti, contribuisce a migliorare la funzionalità respiratoria, a ridurre la lipemia e la pressione arteriosa. Inoltre, l’aumento delle richieste dei tessuti periferici, conseguenti a un incremento del livello di attività, si correla a un miglioramento della sensibilità degli stessi all’insulina e del controllo dei livelli glicemici, prevenendo quei quadri clinici che possono esitare in diabete di tipo 2.

                L’attività fisica entra direttamente anche nella regolazione del bilancio energetico. Purché adeguata alle esigenze del paziente obeso ed effettuata sotto il controllo del clinico, l’attività fisica stimola la secrezione di ormoni che contribuiscono a ridurre l’introito di cibo e grassi, ad aumentare la termogenesi e a diminuire le scorte energetiche. Il passo per cadere nell’eccesso opposto è breve ed è necessario instradare adeguatamente il paziente.

                Per sviluppare un piano che stimoli il paziente ad incrementare la propria attività fisica, bastano alcune regole fondamentali che puntino a motivarlo. Innanzitutto occorre rammentargli che tutti i tipi di attività fisica, purché svolti con criterio, sono adatti e che gli effetti sono additivi: i benefici di tre passeggiate della durata di 10 minuti sono pari a una della durata di mezz’ora, ma nel primo caso si è facilitati nel superare l’ostacolo psicologico al movimento. Questa come altre semplici strategie per vincere la tendenza all’ozio possono risultare molto efficaci.


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