Le diete da non fare

Dimagrire in modo stabile e duraturo non è mai un risultato che si raggiunge in modo semplice e in poco tempo. Diffidare quindi da diete e metodi che promettono sostanziale perdita di peso in pochi giorni, preferendo terapie personalizzate basate su dati reali.

“La dieta iperproteica (tipo Dukan) non è sostenibile nel lungo termine perché non corrisponde ai bisogni del nostro corpo. All’inizio provoca euforia, ma poi le restrizioni non sono più gestibili e provocano disturbi del comportamento alimentare”

Hansel – autority francese sulla sicurezza alimentare.

No alle diete commerciali e al “fa da te”

Il paradosso delle dieta dimagranti è che alla lunga diventano ingrassanti.

Di seguito elenchiamo 12 buoni motivi per non fare le diete dimagranti nel senso convenzionale del termine (poche calorie, tante proteine e pochi carboidrati).

  1. Non sono gestibili nel lungo periodo e paradossalmente diventano ingrassanti;
  2. Abbassano il metabolismo con conseguente recupero dei chili persi;
  3. Compromettono la composizione corporea perchè i chili persi interessano principalmente l’acqua, i muscoli e solo in parte il grasso;
  4. Preparano il campo alla perdita di controllo e quindi all’ abbuffata;
  5. Nei soggetti predisposti possono far scatenare anoressia, bulimia e il BED;
  6. Espongono a danni renali, epatici, tiroidei e del sistema nervoso;
  7. Più diete si fanno e più si fa fatica a perdere peso;
  8. Provocano irritabilità, disturbi del sonno, disturbi dell’umore;
  9. All’inizio provocano euforia, ma poi le restrizioni non sono più gestibili e provocano disturbi del comportamento alimentare;
  10. Dimagrire, ingrassare, dimagrire di nuovo, recuperare infine abbondantemente tutti i chili persi: questo è quello che succede nel 95% dei casi;
  11. Si abbassano i livelli di serotonina con conseguente instabilità dell’umore e bisogno di cibo dolce;
  12. Il fallimento dietetico provoca sensi di colpa, bassa autostima, scarsa autoefficacia, fallimento.

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    I disturbi del comportamento alimentare (DCA): i campanelli d’allarme

    In questa sezione vengono elencati degli “indicatori” di attenzione per una diagnosi tempestiva di Disturbo Alimentare. E’ bene sempre rivolgersi ad un medico esperto in DCA se si ha il dubbio di soffrire o se si è preoccupati per un familiare o amico che si pensa possa avere un Disturbo Alimentare.

    Premettendo che il comportamento da tenere in caso di sospetta presenza di disturbi alimentari è sempre quello rivolgersi ad un medico titolato per una corretta e tempestiva diagnosi, ci sono alcuni indicatori che possono rilevare la presenza o meno a una situazione a rischio DCA.

    Indicatori fisici

    Variazione importanti del peso corporeo

    • Vertigini o svenimenti
    • Indebolimento, perdita di capelli
    • Irregolarità nel ciclo mestruale e/o amenorrea
    • Anomalie nella termoregolazione (freddolosità)
    • Irregolarità nel sonno
    • Pelle secca, pallida o di colorito giallognolo
    • Mal di gola, problemi dentali e gastrointestinali
    • Gonfiori e ghiandole parotidee ingrossate

    Indicatori comportamentali

    • La perdita di peso raggiunta tramite la riduzione della quantità/qualità di cibo assunta e/o le abbuffate compulsive e l’uso di metodi inappropriati per prevenire il conseguente aumento di peso (vomito, lassativi, eccessiva attività fisica, digiuno, ecc.)
    • Uso frequente della bilancia
    • Rifiuto di mangiare in compagnia o mangiare di nascosto
    • Parlare eccessivamente di peso, cibo, calorie, ecc.
    • Negare problemi col cibo e porsi in maniera aggressiva/difensiva qualora se ne parli
    • Passare da una dieta all’altra
    • Assumere più informazioni possibili sull’alimentazione e sul cibo
    • Attuare comportamenti ritualistici rispetto al cibo come tagliuzzare e rigirare il cibo sul piatto, masticare un certo numero di volte, sputare, ecc.
    •  Attività fisica eccessiva ed inappropriata allo scopo di perdere peso.

    Indicatori emotivi

    • Ansia
    • Depressione
    • Apatia
    • Disforia
    • Irritabilità ed aggressività
    • Apprezzamento o meno di sé determinato dal peso
    • Estrema sensibilità al giudizio altrui
    • Percezione alterata della forma del proprio corpo
    • Eccessiva e costante preoccupazione per peso, forma fisica e cibo
    • Aspettative irrealistiche rispetto a sé e alla propria vita

    ATTEGGIAMENTI

    • Aprezzamento o meno di sé determinato dal peso
    • Estrema sensibilità al giudizio altrui
    • Percezione alterata della forma del proprio corpo
    • Eccessiva e costante preoccupazione per peso, forma fisica e cibo
    • Aspettative irrealistiche rispetto a sé e alla propria vita

    Se pensi di soffrire di un disturbo dell’alimentazione prova online il nostro Test Eating Attitudes oppure contatta l’ambulatorio del Dott. Oliva per un appuntamento.


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      I significati del cibo

      I significati attribuiti al cibo spaziano dalla convivialità, alla fame e sazietà, alla consolazione, alla palatabilità, al potere calorico, fino al controllo.

      Per chi vuole perdere peso, il cibo è solo calorie, tante o poche, quindi visto soprattutto per l’alto o basso potere ingrassante. La restrizione calorica è intesa come il mezzo dimagrante più efficace e l’eventuale iperalimentazione cercata o subita (fame compulsiva) viene vissuta per il suo potere ingrassante. La prima dà forza, la seconda deprime e colpevolizza.

      Oltre alle calorie e al significato dimagrante o ingrassante attribuito al cibo, c’è ben altro. L’alimento è formato da tanti elementi nutritivi, centinaia di piccole o grandi molecole capaci di interagire con le strutture e i meccanismi del nostro organismo.

      Il cibo può essere nocivo se assunto in quantità errate o in tipologie dannose oppure può essere benefico. Assunto in maniera corretta apporta infatti i nutrienti indispensabili per la vita e la salute.

      Sono sempre più le evidenze scientifiche che dimostrano come certi nutrienti hanno un’azione protettiva e in certi casi terapeutica: i micronutrienti come il ferro curano l’anemia, lo zinco migliora il metabolismo glucidico, i polifenoli sono preziosi per la capacità antiossidante, grassi buoni come gli omega 3 hanno funzione protettiva vascolare e i semi di cumino ricchi di antiossidanti sono in grado di contrastare malattie cronico-degenerative e si associano alla longevità.

      Da qualche anno si utilizza il termine nutraceutico per mettere in evidenza l’azione farmacologica di certi cibi. Nutrigenomica è la scienza che studia l’influenza dei fattori nutrizionali sui fattori genetici, polimorfismi (caratteristiche) genetici in grado di esprimersi o meno in merito alla dieta e la predisposizione che diventa o meno malattia. Si parla di alimenti funzionali, sostanze in grado di ottimizzare i complessi meccanismi del nostro corpo. Attribuire al cibo un significato prettamente calorico può essere limitativo e in certi casi controproducente. Un organismo privato di nutrienti indispensabili vede limitata la sua funzionalità e compromessa anche la sua capacità di mobilizzare i grassi. Perdere peso in questo caso non coincide con la perdita di grasso ma va ad intaccare strutture nobili come la massa magra per poi inesorabilmente recuperare quello che si è perso. Il cibo, alimento costituito da innumerevoli elementi, serve a far funzionare al meglio le innumerevoli reazioni che sono alla base della vita. Il cibo sano è il nutrimento per il corpo e la mente.

       “E’ la prima volta che non mi sento a dieta (…) anzi, mangio e sono tranquillo (…) non penso al cibo (…)” “E’ diventata un’esigenza alimentarmi in questo modo (…) sento di stare bene.” “Che strano, all’improvviso sono scomparse le abbuffate, la fame compulsiva che sentivo di non poter fermare (…) adesso mangio quello che mi serve e non cerco altro.” “Quando stavo a dieta pensavo sempre al cibo (…) dovevo sempre controllarmi (…) sentivo la tensione fi no a quando scoppiavo (…) pensavo di non avere una buona forza di volontà. Adesso non sono diventata più brava, forte è (…) che non serve controllarmi (…) ho quello che mi serve.” “Mi sento con più energia, con più voglia di fare (…) non è vero che stare a dieta significa necessariamente dover soffrire (…)”

      Tratto dal libro “Corpi uguali, storie diverse” del dott. Luigi Oliva


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        Vigoressia o bigoressia: un disturbo al maschile

        Nella nostra società, si tende a dare eccessiva importanza all’aspetto fisico, quasi fosse il fulcro della nostra vita. Così, tende ad aumentare il numero di persone colpite dai “famosi” disturbi dell’alimentazione.

        In particolare, in questi anni, nella nostra società, si tende a dare eccessiva importanza all’aspetto fisico, quasi fosse il fulcro della nostra vita. Così, tende ad aumentare il numero di persone colpite dai “famosi” disturbi dell’alimentazione.

        Inizialmente tali disturbi interessavano principalmente l’universo femminile, oggi invece, anche gli uomini sono ossessionati dall’apparenza e dalla loro fisicità. Fino a poco tempo fa si parlava di anoressia, bulimia e disturbo da alimentazione incontrollata, oggi invece esiste anche la fissazione per l’ipertrofia del muscolo. Questa tendenza nasce dalla falsa convinzione che avere una corporeità “perfetta” sia una peculiarità preminente della personalità. E’ proprio attraverso queste idee che, alcune persone mettono in atto dei comportamenti quali:

        • trascorrere molto tempo tra le mura delle palestre;
        • mettere in atto in maniera esasperata degli allenamenti che possano fortificare il tono del muscolo;
        • contemplarsi continuamente allo specchio;
        • sottoporsi a delle diete iperproteiche, tenere il proprio peso sempre sotto controllo, ecc.

        Dietro tali comportamenti si può celare il disturbo di cui mi propongo di accennare attraverso il presente articolo: la bigoressia.

        La bigoressia

        Sostantivo femminile [composto dell’inglese big ‘di grandi dimensioni, grosso’ e di oressia ‘senso dell’appetito’ (dal greco óreksis ‘desiderio, appetito’)]: alterata percezione della propria immagine corporea che, congiunta a una cronica insoddisfazione per il proprio aspetto fisico, porta, soprattutto tra i ragazzi e i giovani adulti, a una applicazione maniacale all’esercizio fisico praticato in palestra (body building in particolare) e all’adozione di diete squilibrate sostenute spesso da un uso scorretto di farmaci, con possibili rilevanti ricadute sulla salute dell’individuo.

        Vigoressia, anoressia inversa

        La bigoressia è stata descritta per la prima volta da Harrison Pope Jr. Egli definisce il bigoressico come una persona che tende a ricercare delle modalità compensatorie al fine di aumentare il proprio tono muscolare (utilizzando anche delle sostanze dopanti) e ridurre il grasso. La bigoressia può essere definita come una vera e propria patologia. Infatti, la persona bigoressica patisce un’insoddisfazione forte e permanente inerente al proprio aspetto fisico, ha una forte paura di restare priva dei propri muscoli e del proprio stato di perfetta forma.

        A tali convinzioni seguono delle condotte auto-punitive, come ad esempio:

        • sottoporsi a degli esercizi laboriosi;
        • seguire delle diete molto rigide.

        Per di più, spesso, a questi comportamenti si associa l’uso ed abuso di integratori alimentari, e nei casi più estremi di steroidi anabolizzanti.

        Nel primo caso ci riferiamo a delle sostanze presenti nel cibo che, però, vengono scelte e prodotte a livello industriale sotto forma di capsule, pasticche, bustine, ecc, al fine di facilitare la copertura del nostro fabbisogno giornaliero.

        Nel secondo caso, invece, si fa riferimento a delle sostanze sintetiche che hanno degli effetti simili a quelli degli ormoni sessuali maschili. In particolare, questi ultimi inducono ad un aumento della massa muscolare. Inoltre, gli steroidi determinano anche una diminuzione della massa grassa.

        La bigoressia comporta tutta una serie di effetti sul benessere dell’individuo, come, ad esempio, problemi inerenti al metabolismo, disturbi depressivi, cardiovascolari e del sistema nervoso. In particolare questa patologia colpisce i ragazzi, soprattutto durante l’adolescenza. Come sappiamo, infatti, in questa fase dell’età dell’individuo è alla ricerca di un modellamento della propria forma fisica.

        A differenza dell’anoressia, questo disturbo si manifesta principalmente nei maschi piuttosto che nelle femmine. A proposito di anoressia, alcuni medici sono soliti definire la bigoressia “anoressia inversa”. Esiste infatti, un’interessante differenza o una caratteristica inversa tra l’anoressia e la bigoressia.

        Tale differenza si riferisce al fatto che l’anoressica si vede grassa nonostante la sua fisicità sia minima, mentre il bigoressico si vede piccolo, ed è proprio in questa piccolezza fisica che egli vede la sua debolezza. La bigoressia è stata anche ribattezzata come ‘Complesso di Adone’, personaggio della mitologia greca rappresentante l’idea della magnificenza mascolina intesa come compiutezza corporea.

        Tratto da Salus.it, a cura della Dott.ssa Mirella Fittipaldi


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          Perché non dimagrisco? L’adattamento metabolico

          La resistenza al dimagrimento è determinata da meccanismi biologici, psicologici e comportamentali messi in atto dall’organismo in risposta ad un improvviso e drastico calo dell’assunzione calorica.


          Una prescrizione dietetica troppo rigida spesso può avere come conseguenza un adattamento metabolico, ovvero un abbassamento del valore del dispendio energetico iniziale pari al 20-25% che determina come conseguenza indesiderata una resistenza al dimagrimento.

          In questo modo, si assiste ad una graduale perdita di peso che si arresterà quando l’apporto calorico della dieta sarà pari al dispendio energetico a riposo.

          E’ la differenza tra ciò che si consuma e che che si introduce che ci permette di perdere peso.


          La massa adiposa viene metabolizzata (bruciata) per sopperire le calorie in difetto. 
Se si vuole evitare l’adattamento metabolico e avere una perdita di peso costante occorre innanzitutto misurare il consumo energetico a riposo, ovvero il numero di calorie che si consumano in assenza di attività fisica o sforzi particolari. L’apporto calorico della dieta non dovrà  quindi discostarsi dal valore misurato.

          Interventi dietetici basati su calcoli teorici o peggio ancora volutamente forzati verso un livello di calorie molto basso (inferiore alle 1.100 calorie) determineranno dei danni biologici importanti.

          Schematicamente i danni da dieta rigida possono essere riassunti in quattro categorie:

          1. Adattamento metabolico

          2. Compromissione della composizione corporea

          3. Danni psicologici

          4. Danni comportamentali

          Adattamento metabolico

          Come detto precedentemente l’adattamento metabolico rappresenta la difesa dell’organismo all’improvvisa riduzione dell’introito calorico., opponendosi in questo modo alla perdita di peso e favorendone un suo recupero immediato.
 Il concetto di rigidità riferito ad una dieta è un valore assoluto quando si prescrivono diete forzatamente ipocaloriche (pari o  inferiori a 1.000 calorie) per il resto è un concetto relativo visto le differenti misure del dispendio energetico che si riscontrano nei vari soggetti.
          Pertanto le 1.500 calorie possono essere tante, poche o normali a seconda dei soggetti di riferimento.

          Compromissione della composizione corporea

          

Il paradosso delle diete dimagranti che alla lunga diventano ingrassanti.

          La perdita di peso, che spesso viene associata al dimagrimento, in realtà altro non è che perdita di massa corporea ovvero perdita di tessuto adiposo, massa muscolare, massa cellulare, acqua.
 Dimagrire in realtà dovrebbe significare divenire magri, quindi perdere grasso e non massa magra (muscolo, massa cellulare).

          L’obiettivo della corretta nutrizione nel dimagrimento è quello di far coincidere la perdita di peso con la sola perdita di tessuto adiposo.

          E’ nostra esperienza riscontrare come la perdita di peso superiore a 0,5-1 Kg alla settimana difficilmente corrisponde alla perdita di solo tessuto adiposo, specie quando l’intervento dietetico è limitato nel tempo.
          Nel lungo periodo, ossia quando l’intervento dietetico dura mesi, la corrispondenza tra perdita di peso e perdita di massa grassa è elevata.

          Un intervento corretto, rapportato alle esigenze metaboliche misurate inizialmente e monitorate periodicamente, ci consente di modificare la composizione corporea a favore della massa magra (muscolare, cellulare).

          La perdita di peso ottenuta con la sola prescrizione dietetica è seguita, in una percentuale altissima pari al 95%, da un recupero del peso superiore ai chili persi; cosicchè nel tempo, e dopo diversi interventi dietetici, si pesa molto più di prima.

          La percentuale di tessuto adiposo – che in un soggetto normale oscilla dal 15% al 30% – aumenta a parità di peso se l’individuo si è sottoposto a diversi regimi dimagranti. 
Si comprende quindi il paradosso delle diete dimagranti che alla lunga risultano “ingrassanti”.

          Se perdo e recupero dieci chili, perdo una percentuale di grasso che di certo è inferiore alla percentuale di grasso che accumulo nella fase di recupero del peso.


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            Il Minnesota Study

            Il Minnesota Study, pubblicato nel 1944, è lo studio più importante che abbia valutato gli effetti della restrizione calorica e della perdita di peso nelle persone di peso normale.

            Il Minnesota Study è lo studio più importante pubblicato che abbia valutato gli effetti della restrizione calorica e della perdita di peso nelle persone di peso normale.

            Lo studio, effettuato per un anno presso l’Università del Minnesota nel 1944 fu ideato per valutare gli effetti fisiologici e psicologici di una severa e prolungata restrizione calorica e l’efficacia della riabilitazione nutrizionale.

            Lo scopo principale dello studio fu di capire come assistere nel modo migliore le vittime della carestia in Europa e in Asia, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, usando i dati derivati da una simulazione della carestia in laboratorio.

            Il Protocollo

            L’alternativa al servizio militare

            Più di 100 uomini si proposero come volontari in alternativa al servizio militare. In questo campione iniziale furono selezionati 36 uomini che avevano il migliore stato di salute fisica e psichica e un’elevata motivazione per la partecipazione allo studio. I partecipanti erano tutti bianchi di età compresa tra 22 e 33 anni e 25 erano membri delle Historic Peace Churches.

            Lo studio fu diviso in tre fasi:

            1. Nella fase 1, di 12 settimane, i volontari si cibarono normalmente mentre fu studiato dettagliatamente il loro comportamento, la loro personalità e le loro modalità alimentari. Durante questo periodo i partecipanti assunsero in media 3.492 kcal omeostasi energetica con mantenimento del peso.

            2. Nella fase 2, di 24 settimane i partecipanti furono sottoposti a una restrizione che corrispondeva circa alla metà del loro introito calorico iniziale (in media 1.570 kcal) che era simile all’assunzione calorica media delle persone europee colpite dalla carestia bellica. Questo regime determinò nei partecipanti una perdita approssimativa del 25% del peso iniziale.

            3. Nella fase 3, di 12 settimane, i partecipanti furono gradualmente nutriti in maniera normale. La maggior parte dei risultati fu riportata solo per 32 uomini, dato che quattro si ritirarono. Nonostante le risposte individuali, rispetto alla perdita di peso, variassero notevolmente, tutti gli uomini sperimentarono drammatici cambiamenti fisici, psicologici e sociali.

            Effetti comportamentali, psicologici e psichiatrici

            Ossessione per il cibo. Verso la fine del periodo di restrizione calorica i volontari impiegavano due ore per consumare un pasto che in precedenza richiedeva loro pochi minuti. Dedicavano ore a programmare come suddividere la quantità di cibo quotidiana. 19 cominciarono a leggere libri di cucina e a collezionare ricette. Vi fu un aumento del consumo di caffè e di tè: molti bevevano più di 15 caffè al giorno. I partecipanti cercavano di tenere lo stomaco pieno bevendo grandi quantità di liquidi (acqua e zuppe), chiedevano che il cibo fosse servito bollente, mischiavano gli alimenti in modo strano e vi fu un incremento notevole dell’uso di sale e spezie. Il consumo di gomme da masticare, per alcuni partecipanti, fu anche di 40 pacchetti al giorno, il fumo e l’onicofagia aumentarono marcatamente.

            Perdita di controllo

            Numerosi di questi cambiamenti persistettero anche durante le 12 settimane di recupero del peso. Durante la fase di restrizione calorica tutti i partecipanti riferivano un incremento della fame, alcuni riuscivano a tollerarla, per altri invece il fatto costituì un’intensa preoccupazione, fino a diventare insopportabile. Parecchi non riuscirono ad aderire alla dieta e manifestarono episodi bulimici, seguiti da auto-rimprovero, autodeprecazione e agiti autolesivi. Durante la fase di recupero del peso, quando era offerta loro una grande quantità di cibo, molti partecipanti perdevano il controllo dell’appetito, mangiando di più o di meno del necessario. Anche dopo 12 settimane di riabilitazione veniva segnalato un aumento della fame subito dopo un pasto abbondante.

            Recupero stentato

            La normalizzazione delle abitudini alimentari avvenne nella maggior parte dei casi solo dopo circa cinque mesi di riabilitazione, ma in un sottogruppo il consumo di cibo in eccesso continuò. Non si identificò il fattore discriminante fra chi normalizzò le abitudini alimentari e chi invece continuò a mangiare enormi quantità di cibo. Tuttavia è importante sottolineare il fatto che, tra i partecipanti, si verificarono differenze nella risposta alla denutrizione. In generale, gli uomini risposero alla restrizione calorica con una riduzione dell’attività fisica, stanchezza, debolezza, disattenzione, apatia e mancanza di energia.

            Caduta della concentrazione

            I movimenti dei volontari diventarono notevolmente più lenti. Alcuni uomini praticavano saltuariamente esercizio fisico in modo spontaneo. Qualcuno tentò di perdere più peso cercando di consumare più energie in modo tale da poter ottenere una razione di pane più abbondante o di evitare la riduzione delle razioni. Da un punto di vista più strettamente psicologico si osservò una caduta delle capacità di attenzione e di concentrazione, scarsa capacità di insight e giudizio critico, pensiero focalizzato sul cibo, sbalzi del tono dell’umore, irritabilità, ansia, depressione ed episodi psicotici.

            Come nell’Anoressia Nervosa

            Keys scriveva: “Il cibo diventò l’argomento centrale della conversazione…costantemente intrusivo dello stato di essere consapevoli …il pensiero coerente e creativo diventò alterato…Il tempo impegnato per la ricerca del cibo aumentò a spese dello svago. Sintomi psichiatrici furono la regola come la depressione e le idee suicidarie.

            Si verificò frequentemente l’accaparramento del cibo sottraendolo ad altri. Si svilupparono ansia come conseguenza della fame, disordini mentali come le psicosi. Keys focalizza il concetto della somiglianza dei sintomi del digiuno sperimentale con quelli dell’anoressia nervosa. Considerando che il digiuno è una evenienza comune dell’evoluzione umana molte delle conseguenze descritte da Keys sono protettive, come l’amenorrea. La concentrazione per ottenere cibo appare inoltre come una strategia d’aiuto piuttosto che un segnale patologico.

            Pertanto quello che accade nell’anoressia nervosa deve essere considerato un evento realistico piuttosto che qualcosa di inesplicabile.

            Effetti sociali

            Socializzazione alterata. La restrizione calorica determinò nei volontari cambiamenti nelle relazioni sociali, quali una minore capacità di socializzazione e un maggiore isolamento. L’umore generale subì un peggioramento, il cameratismo diminuì marcatamente, mentre crebbe il senso di inadeguatezza sociale. Inoltre, i partecipanti all’esperimento riferirono una marcata diminuzione dell’interesse sessuale e delle fantasie erotiche. Gli impulsi sessuali cessarono o diventarono meno comuni.

            Effetti fisici

            Disturbi a tutti i livelli. Dopo sei mesi di restrizione calorica, i partecipanti presentarono modificazioni fisiche tra cui: dolori addominali, digestione lenta e difficile, disturbi del sonno, vertigini, mal di testa, ipersensibilità alla luce e al rumore, riduzione della forza fisica, edemi, perdita di capelli, diminuita tolleranza al freddo, mani e piedi freddi, disturbi della visione (macchie nel campo visivo e difficoltà nella focalizzazione delle immagini), disturbi dell’udito (ronzii) e parestesie.

            Perdita del 25% del peso

            Si verificò una riduzione della temperatura e del metabolismo basale, oltre che della frequenza cardiaca e respiratoria, che alla fine dello studio si avvicinò addirittura al 40% della norma. Durante la riabilitazione il metabolismo basale aumentò in maniera proporzionale all’aumento delle calorie ingerite. Dopo la perdita di peso del 25%, i partecipanti furono sottoposti alla ri-alimentazione che li fece tornare mediamente al loro peso originale, accresciuto del 10%. Poi gradualmente i partecipanti ritornarono ai livelli di peso che avevano prima dell’esperimento.

            La lezione di Keys dopo 50 anni

            Purtroppo, dobbiamo riscontrare che non è ancora compresa. Gli effetti comportamentali che oggi possiamo leggere come “lezione di Keys”, sono fondamentali e non sono tuttavia stati compresi dalla comunità sanitaria perché il fenomeno della restrizione calorica è stato perseguito in maniera indiscriminata per la terapia dell’OB, nonostante l’evidenza della ricaduta comportamentale relativa alla perdita di controllo.

            Una raccomandazione per l’Anoressia

            La restrizione alimentare presente nell’anoressia nervosa è causa di molti sintomi descritti la Keys che vanno interpretati come manifestazioni secondarie al deficit di energia. Questo insegna che la ri-alimentazione assume un ruolo terapeutico primario che interrompe il circolo vizioso del rifiuto del cibo dovuto alla psicopatologia.

            La restrizione “terapeutica” può essere dannosa

            Solo oggi, alla luce delle conoscenze dei circuiti CNDR, possiamo tracciare delle raccomandazioni basate sulle evidenze che Keys aveva già messo in evidenza.
            In poche parole la restrizione calorica può essere più dannosa del presunto effetto terapeutico anche quando si vorrebbe ottenere una perdita di peso nei soggetti OB.

            La restrizione è il più potente rinforzo che viene dato al cibo che acquista un importante livello della salienza dell’incentivazione. Questo è importante perché l’approccio per cambiare il comportamento alimentare richiede una riduzione nel consumo di energia. Sono necessarie ricerche specifiche per identificare il rapporto fra restrizione alimentare e cambiamenti di rinforzo del cibo.

            Tratto da “Food Addiction” di Nazario Melchionda. Il dott. Oliva ha collaborato alla stesura del libro.


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              Fuga dalla dieta

              La fuga dalla dieta o “eclissi” coincide nel momento in cui un soggetto a regime dietetico decide di mollare, di abbandonare il percorso dietologico e la terapia associata.

              “Entrare in eclissi”significa scomparire, nascondersi temporaneamente, non farsi vedere più.

              Entrare in eclissi: un rischio ricorrente

              Questo è un meccanismo psicologico che viene spesso attuato da un soggetto obeso che non riesce a mantenere il controllo della propria alimentazione e che non riesce più a perdere peso o, peggio, aumenta di peso.

              La reazione psicologica porta la persona al rifiuto di pesarsi ed a disdire il successivo controllo o spesso a non presentarsi all’appuntamento, per un senso di colpa o di soggezione.

              Durante il periodo di assenza, a volte molto lungo, la persona riacquista peso superando molto spesso quello di partenza. Quando la persona obesa entra in “eclissi” si comporta come l’automobilista che avendo paura di andare fuori strada chiude gli occhi: certamente andrà nel fosso o contro mano.

              Poichè nessuno alla guida dell’auto può mantenere un’andatura perfettamente rettilinea, anche il soggetto obeso deve imparare a tenere gli occhi aperti e il sistema di controllo attivo per effettuare quelle piccole correzioni di direzione che gli permettono di mantenere i risultati nel tempo.

              Il supporto terapeutico settimanale ha, tra gli altri, lo scopo di individuare i motivi del momentaneo scivolone aiutando la persona a costruire dei percorsi più sicuri.

              Non restare a terra, ma affrontare subito il problema significa non rischiare ulteriori aumenti di peso. Attraverso i controlli periodici, identificando le situazioni a rischio e i comportamenti errati, si può imparare a gestire al meglio il proprio percorso di dimagrimento evitando gli scivoloni o imparando a rialzarsi subito.


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                Fibra alimentare: l’alimento non alimento

                Pur non essendo un nutriente vero e proprio, esercita importanti azioni di tipo funzionale e metabolico. Presente in molti ortaggi, cereali e legumi, è ingrediente fondamentale per una dieta sana e combatte la stipsi. 

                L’alimento non alimento

                La fibra è la componente degli alimenti resistente alla degradazione da parte degli enzimi dell’organismo umano e, pur non potendosi considerare un nutriente, è un importante componente della dieta perché esercita effetti di tipo funzionale e metabolico. Si trova principalmente in tutti i cibi di origine vegetale; ortaggi e verdura, frutta, cereali e legumi.

                La fibra, senza essere assorbita dall’organismo giunge fino all’intestino, dove viene parzialmente fermentata dalla flora batterica del colon.

                Dal punto di vista chimico, è costituita per la maggior parte da carboidrati complessi non digeribili (cellulosa, emicellulosa, pectine, gomme e mucillagini) e da elementi non glucidici (lignina).

                La fibra non ha alcun valore energetico, se si esclude un piccolo apporto di calorie (2 kcal/grammo) dovuto agli acidi organici che si formano a seguito dei processi fermentativi.

                Oltre all’aumento del senso di sazietà e al miglioramento della funzionalità intestinale e dei disturbi ad essa associati (stipsi, diarrea, diverticolosi), l’introduzione di fibra con gli alimenti è stata messa in relazione alla riduzione del rischio per importanti malattie cronico-generative quali i tumori del colon-retto e le malattie cardiovascolari.

                In base alla capacità di sciogliersi o meno in acqua la fibra viene distinta in solubile e non solubile con effetti fisio-metabolici differenti.

                La fibra solubile

                La fibra solubile (costituita da pectine, gomme, mucillagini, FOS, inulina) si può sciogliere in acqua, dove forma un gel che rende più viscoso il contenuto intestinale, ed è maggiormente fermentabile.

                Si trova principalmente nell’avena, nell’orzo, nei legumi e nella frutta (soprattutto in agrumi, mele, pere, prugne, uva).Esercita i suoi effetti prevalentemente a livello metabolico regolando l’assorbimento di zuccheri e di grassi:

                • riduce e rallenta l’assorbimento di carboidrati con conseguente riduzione del picco glicemico post-prandiale. Ciò permette di mantenere un livello di zuccheri nel sangue più costante e duraturo nel tempo e un senso di sazietà prolungato;
                • riduce e rallenta l’assorbimento di grassi e di colesterolo con conseguente miglioramento del profilo lipidico;
                • riduce l’assorbimento dei sali biliari, determinando una riduzione della colesterolemia e della formazione di calcoli biliari;
                • forma complessi insolubili con il calcio (a causa della presenza dei fitati, una componente anti-nutrizionale della cuticola esterna dei cereali, dei legumi e dei semi delle piante) determinandone un ridotto assorbimento e conseguentemente una riduzione del rischio di calcolosi renale nei soggetti predisposti.

                Questo tipo di fibra è utile nella prevenzione e cura di malattie metaboliche e cardiovascolari come l’obesità, il diabete, l’iperuricemia (gotta) e le dislipidemie, ma anche nel ridurre la formazione di calcoli epatici e renali. 


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                  L’indice di sazietà

                  Il potere saziante dei cibi è una variabile fondamentale per controllare lo stimolo della fame e gestire al meglio le diete per la cura dell’obesità. Essa è influenzata da diversi fattori. Scopri quali.

                  La capacità di placare la senzazione di fame è diversa in ogni singolo alimento. Questa variabile viene influenzata da diversi fattori, di natura sensoriale, meccanica e ormonale:

                  – la vista del cibo
                  – la masticazione
                  – la deglutizione
                  – la ripienezza e lo svuotamento gastrico
                  – i fattori post-assorbitivi

                  Densità calorica

                  L’indice di sazietà di un alimento è inversamente proporzionale alla sua densità calorica. Infatti un maggior volume a parità di calorie significa un maggior riempimento gastrico e quindi maggiore sazietà.

                  Consistenza degli alimenti e masticazione

                  Masticare per un tempo superiore la stessa quantità di cibo sazia di più e più a lungo perché si dà il tempo ai segnali anoresizzanti provenienti dall’apparato gastroenterico di raggiungere il cervello stimolando la sensazione di sazietà.
                  Per lo stesso motivo sono da preferire i cibi che richiedono una lunga masticazione, come per es. la carne, la pasta, il pane, la verdura.

                  Fibra

                  Gli alimenti ricchi di fibra, oltre che avere una densità calorica minore, rallentano lo svuotamento gastrico e il rilascio di glucosio nel sangue, prolungando il senso di sazietà per azione meccanica (il cibo rimane più a lungo nello stomaco) ed ormonale (modulata risposta insulinica).

                  Grassi e zuccheri

                  Gli alimenti ricchi di grassi e zuccheri (es. dolci, merendine, gelati, burro, olio, frutta secca) hanno una densità calorica elevata e la maggior parte di questi richiedono poco tempo per essere masticati. Il risultato è l’introduzione di molte calorie senza soddisfare la fame, che porterà alla ricerca di altro cibo e quindi di calorie in eccesso rispetto al reale fabbisogno.

                  Il “fullness factor”

                  Oggi è possibile valutare la sazietà indotta da un alimento con un indice, chiamato “fullness factor”, introdotto e studiato per la prima volta nel 1995 dalla ricercatrice australiana Susanna Holt. (Holt, S.H., et al., A satiety index of common foods, Eur J Clin Nutr 1995 Sep; 49(9): 675-690). Tale indice viene calcolato attraverso una formula matematica che prevede la sazietà di un determinato alimento o ricetta in base al contenuto (riferito a 100 g) di calorie, proteine, fibra e grassi.
                  Il risultato è un numero che varia da 0 a 5. Il valore soglia è 2,5: sono considerati molto sazianti gli alimenti con indice di sazietà maggiore di 2,5, poco sazianti quelli con indice inferiore.
                  Al primo gruppo appartengono infatti cibi che hanno una bassa densità calorica, che sono ricchi di fibra e che richiedono un lungo tempo di masticazione (verdura, frutta, carne, pesce); al contrario si classificano nel secondo gruppo i cibi grassi e zuccherini che non favoriscono la ripienezza gastrica e che vengono deglutiti rapidamente (dolci, burro, merendine, frutta secca). Per esempio il pesce alla griglia ha un “fullness factor” di 3,4 mentre il miele di 1,4.

                  Tabella del Fullness Factor

                  Anguria 4.6
                  Pompelmo 4.0
                  Carote 3.8
                  Arance 3.5
                  Pesce alla griglia 3.4
                  Petto di pollo arrosto 3.3
                  Mele 3.3
                  Bistecca di manzo 3.2
                  Pop corn 2.9
                  Patate al forno 2.5
                  Yogurt magro 2.5
                  Banana 2.5
                  Maccheroni e formaggio 2.5
                  Riso integrale 2.3
                  Spaghetti 2.2
                  Riso bianco 2.1
                  Pizza 2.1
                  Arachidi 2.0
                  Gelato 1.8
                  Pane bianco 1.8
                  Uvetta essicata 1.6
                  Snack tipo Snickers, Mars 1.5
                  Miele 1.4
                  Saccarosio 1.3
                  Glucosio 1.3
                  Patatine 1.2
                  Burro 0.5

                  La tabella fornisce solo un esempio del FF per alcuni tipi di cibo.
                  Sul sito della Nutrition Data è possibile cercare altri cibi ed il loro relativo FF. Alcuni cibi con nomi simili possono avere un FF molto diverso tra loro, a seconda dei loro ingredienti. Ad esempio, i pop corn preparati senza burro hanno un maggiore FF dei popcorn preparati con questo ingrediente.


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                    Il pesce: di mare o di allevamento

                    Di mare o di allevamento, il pesce varia la sua composizione nutrizionale a seconda del regime dietetico mantenuto durante il corso della sua vita. Per questo motivo è importante conoscere alcune fondamentali informazione sull’origine del prodotto prima ancora di scegliere la specie da mettere nel piatto.

                    Di mare o di allevamento, il pesce varia la sua composizione nutrizionale a seconda del regime dietetico mantenuto durante il corso della sua vita. Per questo motivo è importante conoscere alcune fondamentali informazione sull’origine del prodotto prima ancora di scegliere quale specie andremo a mettere nel piatto.

                    All’inizio degli anni ’50 ogni italiano mangiava in media circa 2 kg e mezzo di pesce l’anno, conservato con i metodi tradizionali. Tale quantità ad oggi non sembra essere cambiata di molto.

                    Sempre nello stesso periodo, si stima venissero consumati circa 5 kg di pesce fresco, che nella metà degli anni 60 hanno iniziato ad aumentare fino a un totale attuale tra prodotti ittici, freschi e conservati, di 15-20 kg annui per persona. In media ogni italiano oggi ha la possibilità di nutrirsi con 3 ½/4 hg di prodotti ittici alla settimana, che al netto degli scarti si riducono a circa 2 ½ hg e quindi a poco più di un pasto alla settimana.

                    Tale quantità risulta sicuramente insufficiente per una corretta alimentazione. L’aumento del consumo alimentare di pesce, principalmente nei paesi industrializzati, è dovuto all’aumento dell’importazione da mari sempre più distanti, ma soprattutto al grande aumento dei pesci allevati.

                    L’80% di orate, branzini e anguille, il 90% di salmoni, carpe e trote mangiate in Italia sono di allevamento o, nell’ultima fase della vita, sono stati alimentati dall’uomo.
                    Sono di allevamento gran parte dei pesci d’acqua dolce (trote, etc) e 1/3 dei pesci di acque salate (salmoni, orate, branzini, etc), buona parte di crostacei (gamberi e gamberetti, etc) e di molluschi (ostriche, cozze, etc).

                    I vantaggi dell’allevamento sono numerosi:

                    • si alimentano con cibi in parte non competitivi con quelli dell’uomo;
                    • trasformano gli alimenti in modo molto efficiente poiché non consumano energia per la postura e la termogenesi;
                    • possono essere velocizzati nel processo di crescita, aumentando la temperatura dell’acqua e l’ossigenazione;
                    • nel mercato vengono pagati al di sopra del reale valore nutrizionale (cibo leggero e di buon valore nutritivo).

                    La parte alimentare più importante del pesce è costituita dai suoi muscoli che costituiscono la sua carne, la quale, essendo composta da scarse quantità di tessuto connettivo, risulta particolarmente tenera. Essa contiene dal 15 al 27% di proteine, con un’ottima digeribilità e buona qualità aminoacidica. Variabile è invece la quantità di grassi, soprattutto insaturi, che ne permette la distinzione in pesci magri, quelli che contengono fino al 3% di grassi (trote, merluzzo, sogliola, palombo, etc), semigrassi, dal 3 all’8% (sardine, cefali, tonno, etc) e pesci grassi, oltre l’8% (anguilla, sgombro, etc).

                    La qualità dei grassi dipende però non soltanto dalla specie ittica, ma da come questa ha vissuto e si è alimentata: la quantità di insaturi è quindi maggiore nei pesci non di allevamento, in quelli freschi o surgelati e con una confezione che li protegga dall’irrancidimento, preferibilmente cotti a basse temperature (poco superiori ai 100°C) e non a lungo.

                    Le caratteristiche delle proteine e dei grassi dei pesci sono in gran parte complementari con quelle degli alimenti vegetali quali riso, pasta e pane. Per questo motivo anche piccole quantità di pesce, aggiunte ad una dieta composta prevalentemente di vegetali, possono assicurare una dieta equilibrata: è il caso delle acciughe nella pizza napoletana, della pasta con le sarde, della paella ispanica, degli spaghetti ai frutti di mare.

                    È importante ricordare che diversi studi epidemiologici hanno dimostrato che in popolazioni con alto consumo di pesce marino la mortalità per malattie cardiovascolari è particolarmente ridotta.

                    Punti di forza del pesce:
                    • Proteine ad elevato valore biologico, pari a quelle degli animali da macello o da cortile;
                    • Grassi prevalentemente insaturi e presenza di acidi grassi Omega-3, indicati per la prevenzione delle dislipidemie e delle malattie cardiovascolari;
                    • Apportatore di vitamine A, D, PP e del gruppo B;
                    • Elevata digeribilità e facile masticabilità, pertanto indicato per chi ha problemi di digestione lenta e/o di masticazione;
                    • Basso livello calorico in pesci magri e semigrassi, quindi consigliato in corso di diete dimagranti;
                    Punti deboli del pesce:
                    • Non si tratta di un alimento completo e quindi va utilizzato insieme a pane, pasta, riso e polenta;
                    • Elevata deperibilità e quindi necessità di usare pesci freschissimi o conservati a dovere.
                    La stagionalità del pesce

                    PRIMAVERA

                    Aragosta, carpa, cefalo, dentice, latterino, passera, pesce spada, tonno, sardina, sgombro.

                    ESTATE

                    Acciuga, calamaro, cozza, orata, ostrica, rombo, scorfano, seppia, totano, vongola.

                    AUTUNNO

                    Anguilla, aragosta, cefalo, ostrica, polpo, sardina, sogliola, tellina.

                    INVERNO

                    Merluzzo, moscardino, sarda, rana pescatrice, sardina, sogliola, spigola, trota, triglia.

                     

                    La Redazione